Femminicidi
Lo psicologo: «Demonizzare gli uomini non serve, la violenza si previene insieme»
Il corpo di Giulia Cecchettin, scomparsa sabato scorso, è stato ritrovato nel lago di Barcis, in provincia di Pordenone. Si tratta del centotreesimo femminicidio dell'anno, compiuto, a quanto sembra, dall'ex fidanzato Filippo Turetta, ancora scomparso. Secondo Mario De Maglie, vicepresidente del Centro di ascolto uomini maltrattanti, la violenza sulle donne è un fenomeno culturale, di cui anche gli uomini devono parlare e su cui anch'essi devono agire. Perché è un problema che riguarda soprattutto loro
Ormai è certo. Quello di Giulia Cecchettin, ventiduenne padovana scomparsa insieme all’ex fidanzato Filippo Turetta sabato scorso, è stato un femminicidio. Il centotreesimo dall’inizio dell’anno. La conferma è arrivata dopo il ritrovamento del corpo nel lago di Barcis, in provincia di Pordenone. Turetta, non ancora rintracciato, era stato ripreso dalle telecamere dello stabilimento Dior a Fossò (nella città metropolitana di Venezia) mentre aggrediva la ragazza e la trascinava in auto. Un altro drammatico caso di violenza sulle donne, un problema strutturale e culturale, che, secondo Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta, coordinatore clinico e vicepresidente del Centro di ascolto uomini maltrattanti – Cam di Firenze, va affrontato da uomini e donne assieme, comprendendo le radici del fenomeno, sensibilizzando e facendo prevenzione. Con decisione, ma senza mettere sotto accusa il genere maschile tout-court.
Spesso, quando si parla di contrasto della violenza sulle donne, gli uomini sono poco coinvolti. Qual è invece l’importanza di affrontare la questione assieme?
La violenza degli uomini sulle donne è un problema degli uomini e non delle donne, anche se lo diventa di riflesso: è di chi agisce la violenza, non di chi la subisce. Purtroppo quello che vediamo è che spesso all’interno della società civile sono più le donne a essere impegnate nel contrasto alla violenza sul loro genere rispetto agli uomini. Nonostante negli ultimi anni ci sia sicuramente una sensibilità maggiore al tema, i numeri rimangono più o meno invariati rispetto al passato: non è trattando il fenomeno come qualcosa di emergenziale che riusciremo a risolvere la questione. Purtroppo è un problema strutturale, c’è una mascolinità che non va bene, c’è una gestione del rifiuto, della lontananza, della separazione che da parte di alcuni uomini – e sottolineo alcuni, non tutti – diventa problematica e talvolta, come vediamo nei casi di cronaca che costituiscono solo la punta dell’iceberg, violenta. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di fare tutto il possibile per la presa in carico di uomini che hanno questo tipo di problemi, sia che si rivolgano a noi volontariamente sia che arrivino a noi tramite i servizi. Facciamo anche azioni di sensibilizzazione sociale; è importante che lavorare per cambiare la società e la cultura. Non sono mutamenti che si possono fare in tempi brevi, ma abbiamo cominciato.
C’è una gestione del rifiuto, della lontananza, della separazione che da parte di alcuni uomini – e sottolineo alcuni, non tutti – diventa problematica
Mario De Maglie
Le persone coinvolte in questo caso di cronaca sono molto giovani. I ragazzi di oggi hanno maggiori o minori possibilità di cadere in questo meccanismo rispetto al passato?
Io non sono un educatore o un insegnante, per cui non ho esperienza diretta coi più giovani. Certo, da una parte c’è una sensibilità maggiore. Noi per primi facciamo incontri nelle scuole e comunque, in generale, c’è un’attenzione che prima non c’era. Però sappiamo che oggi ci sono una serie di strumenti e mezzi di controllo – i social, le attività online – che prima non c’erano e che ora sono alla portata di tutti. Questo introduce un fattore di rischio importante.
Quali sono le motivazioni che possono portare una persona a compiere atti estremi come questo?
Alla base di tutto c’è la rabbia, un’emozione forte che non riesce a essere controllata; può scaturire da diverse motivazioni, dal fatto di sentirsi abbandonati, da una separazione in atto, da un rifiuto, dal sentirsi non riconosciuti. Si tratta di una serie di cose che tutti, più o meno, siamo abituati a provare. Chi non è stato abbandonato, tradito o rifiutato? In alcune persone, però, la rabbia raggiunge un’intensità tale che il loro comportamento diventa fuori controllo e possono fare del male a coloro che individuano come i responsabili dei loro vissuti. Sicuramente una buona educazione ed essere vissuti in un clima familiare relativamente sereno ed equilibrato, dove sono insegnati determinati valori, aiuta, è un fattore di protezione, che però non elimina il rischio, perché non esiste solo la famiglia come luogo di crescita, soprattutto dopo i primi anni di vita. E poi c’è la soggettività di ognuno. Certo, lavorando sul sociale e sulla cultura partiamo sicuramente avvantaggiati. La rabbia è una caratteristica umana, se ce l’abbiamo c’è un motivo. Non dobbiamo imparare a non arrabbiarci, ma a gestire la nostra rabbia. Chi non ci riesce la scaraventa sull’altro, magari responsabilizzandolo per quello che sta vivendo. Quando invece sono fragilità loro, indipendenti dalla donna con cui sono e dal suo comportamento. È un problema di relazione con l’altro che nasce però da un problema interno, di insicurezza.
A che età bisognerebbe iniziare a lavorare sulla prevenzione della violenza?
Non c’è un’età. Il primo luogo all’interno del quale cresciamo è la famiglia; quindi una famiglia sensibile, che rispetta i valori dell’uguaglianza e che mette dei limiti è sicuramente un ottimo punto di partenza. Poi i ragazzi iniziano ad andare a scuola, con la crescita arrivano anche tutte le attività sociali, la palestra, lo sport. Prima si comincia la prevenzione meglio è. Tenendo presente che le nostre famiglie non sono dei destini: ci sono persone che hanno avuto passati molto difficili e traumatici, che riescono a vivere una vita senza utilizzare la violenza, così come ce ne sono altre che hanno avuto tutto sommato un’esistenza tranquilla ed equilibrata che possono farlo. È difficile stabilire delle regole. Ci sono una serie di fattori che incidono, ma non sono qualcosa di ineluttabile.
Prima si comincia a fare prevenzione meglio è
Mario De Maglie
Il caso di cronaca di Giulia Cecchettin e di Filippo Turetta ha avuto una grande risonanza mediatica. Esiste una responsabilità dei giornalisti, dei media e della stampa quando si parla di violenza sulle donne?
Esiste una grande responsabilità. Si parla spesso di violenza sulle donne quando succedono eventi tragici, però in questo momento, mentre parliamo, sicuramente ci sono tante altre situazioni in cui si sta subendo violenza. Bisogna cercare di arrivare prima che succeda qualcosa di irreparabile: anche qualora non si arrivi a un femminicidio, tante donne vivono all’interno di relazioni dove c’è paura e smarrimento, quindi violenza. Oggi tantissimi giornalisti ci chiedono l’intervista con gli uomini autori, capisco anche l’esigenza giornalistica, però noi come centro abbiamo scelto di non fare accedere a loro proprio perché è importante parlarne senza spettacolarizzare, tutelando anche il lavoro che noi facciamo. È fondamentale, poi, non accusare gli uomini tout-court: è un problema loro, ma non di tutti loro. Spesso si demonizza il maschile, che così tuttavia non fa altro che sentirsi attaccato. E, a volte, chi si sente attaccato attacca per difendersi. C’è un maschile che può essere migliorato, che ha tutto da guadagnarci ad avere una relazione diversa col femminile; non deve diventare un atto d’accusa, ma qualcosa che ha più a che fare con la comprensione delle dinamiche.
In apertura, la sorella di Giulia Cecchettin appende un fiocco in ricordo della sorella scomparsa, foto di Lucrezia Granzetti/LaPresse
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