Cultura

La lezione del giornalista Fisk. Notizie ufficiali. Cioè manipolate

Incontro col famoso reporter inglese che sa tutto di Medio Oriente. E avverte: "Nelle guerre la prima vittima è la verità" (di Giulia Fossà).

di Redazione

“Nessuno dice ?mi dispiace?, dopo una guerra, nessuno prende atto della verità. Nessuno ti fa vedere quello che vediamo noi”. Così Robert Fisk conclude una delle sue corrispondenze per l?Independent, 25 in tutto, scelte tra i suoi tanti scritti fra il 1996 e la conclusione dell?ultima guerra nel Golfo. Giornalista coraggioso, dalla prosa diretta e lineare come il suo sguardo, ha trovato un editore italiano altrettanto coraggioso, Fandango. Un titolo asciutto, essenziale: Notizie dal fronte. Osservo Robert Fisk accanto a me in un ristorante romano a conclusione di un lungo monologo-presentazione del suo libro alla stampa estera. Camicia aperta, mani ferme, un sorriso ironico ma non beffardo, insaziabilmente curioso come una volpe, sembra uno di quei giornalisti su misura del cinema americano fra le due guerre. Non a caso, nell?introduzione Fisk ricorda che fu un film di Hitchcock, Foreign Correspondent, a decidere il suo destino professionale. Si definisce un cronista, anzi un crime correspondent come dicono gli inglesi. La sua testimonianza dal Libano fu definita dai recensori un rapporto sul genocidio. E la sua vita professionale, come documentano gli articoli di Notizie dal fronte, si muove fra rischi e pericoli nelle zone più calde del mondo, soprattutto nel Medio Oriente. A Beirut ha la sua base: da lì parte per le sue incursioni giornalistiche. I soldati a stelle e strisce li ha visti in azione parecchie volte, dal Kosovo all?Afghanistan. Il conto delle stragi, delle efferatezze, dei danni collaterali in nome della ?libertà? trova spazio nella sua prosa precisa, tagliente, densa di particolari atroci, messi a fuoco da uno zoom spietato. Insofferente alla retorica, soprattutto se di parte, non ha riguardi per l?editore né per il pubblico che lo segue. Anzi sfida, come si legge in Lezioni Americane, l?opinione pubblica statunitense durante un giro di conferenze negli Usa. “Dicevo al pubblico che il mondo non era cambiato l?11 settembre, che 17.500 libanesi e palestinesi erano morti durante l?invasione di Israele nel 1962, ossia un numero di vittime oltre cinque volte maggiore di quello causato dai crimini contro l?umanità dell? 11/9. E allora non erano state accese candele commemorative né c?erano stati solenni riti funebri”. Biasima il nuovo stile giornalistico che apparenta stampa e tv con un linguaggio codificato: insieme alla sua rabbia lucida, Fisk trasmette il rumore degli aerei da bombardamento (memorabile il suo pezzo sull?attacco all?Hotel Palestine), il suono dei cingoli da carrarmato, le urla della gente, il fetore dei cadaveri dimenticati per strada e perfino l?insopportabile ronzio delle mosche attorno alla carne umana in putrefazione. “Perché questa è la guerra”, afferma. Implacabile nel suo mestiere di cronista, ci offre alcune pagine di giornalismo investigativo al limite del romanzo: storia di un missile rispedito al mittente (maggio e giugno 1997). Turbato da un bombardamento israeliano ?mirato? su un?ambulanza, ricostruisce, attraverso un frammento, il tipo di missile e non esita a chiamare in causa la responsabilità dei costruttori americani per quell?episodio d?infamia. A proposito della guerra appena conclusa, gli facciamo notare che anche gli osservatori più critici fanno oggi un bilancio meno severo: Saddam non è più al potere, i tempi dell?azione bellica sono stati contenuti, il numero dei morti non ha rispettato le spaventose previsioni. “Restano strane cose da chiarire, troppa nebbia”, replica senza esitazione, “e poi la guerra non è vittoria o sconfitta: è prima di tutto morte e sofferenza umana”. Conserva in rullini (non usa la digitale) le prove inequivocabili delle atrocità: quelle per esempio di Hilla-Babilonia dove contro la popolazione sono state sganciate bombe a grappolo. Denuncia la responsabilità del regime iracheno in quegli episodi ma pensa che gli invasori avrebbero dovuto rispettare le convenzioni internazionali. Come nel caso degli incendi e dei saccheggi di Bagdad. “Sono stato uno dei primi giornalisti a entrare nel Museo nazionale, nella Biblioteca nazionale degli archivi, nella Biblioteca coranica del ministero degli Affari religiosi. Documenti eccezionali, unici, su cui era stato versato del petrolio, bruciati a 3mila gradi. In qualche caso marines seduti su un muro vicino a guardarli bruciare: al quartier generale della 3a divisione dei marines, a Bagdad, ho detto che secondo la Convenzione di Ginevra le forze di occupazione avevano il dovere morale di proteggere i documenti, l?identità culturale di un Paese”. Perché è successo? Tanti perché. Fisk è convinto che la guerra non sia finita, dopo la resa e la strana scomparsa di Saddam. Per questo ha deciso di tornare a Bagdad. In viaggio l?ha preceduto la notizia dell?attentato ceceno. Qualche ora dopo era testimone del massacro di Riyadh. Un segno della forza di Al Qaeda? Ipotesi da verificare. Notizie. Da un fronte pericolosamente dilatato. di Giulia Fossà


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