Angelo Moretti

Se il Welfare Meridiano conquista la Penisola ci guadagniamo tutti 

di Anna Spena

Angelo Moretti, presidente del Consorzio Sale della Terra di Benevento, ha pubblicato il libro “Welfare Meridiano”. Un viaggio che racconta come invertire la visione del welfare “risarcitorio” e dimostra che la cooperazione sociale non deve rispondere ai bandi, ma ascoltare le comunità

La relazione è l’architrave di tutto il welfare meridiano, non solo un pensiero, ma un modo di fare e di essere che mette avanti la persona, non i progetti. Che guarda al benessere ed anche al “profitto”, ma solo se serve a generare altro benessere ancora. Che cos’è il welfare meridiano lo ha spiegato bene Angelo Moretti, presidente del Consorzio Sale della Terra, nel suo libro che si chiama proprio così, “Welfare Meridiano”, Rubbettino editore, con la prefazione di Carlo Borgomeo, presidente per 16 anni di Fondazione Con il Sud.

Non un manifesto ma un racconto di storie ed esperienze concrete che dimostrano che il Sud Italia non è il fanalino di coda del Paese, come tendono a farci credere le classifiche. E se il welfare del futuro avesse la visione del “pensiero meridiano”? Lo stato sociale potrebbe finalmente vivere un cambiamento inedito, da Sud. “Welfare Meridiano” è un viaggio nel welfare del Sud Italia, ma soprattutto un viaggio nelle scelte di vita del suo autore che si sono intrecciate e inevitabilmente hanno prodotto – e più di tutto concretizzato – giorno per giorno – quell’idea luminosa di welfare meridiano. 

In questo libro si intrecciano le tue esperienze di vita privata, le tue scelte lavorative, anche i racconti d’infanzia. Letto dal tuo punto di vita il “Welfare Meridiano” non è solo una “teoria”, ma qualcosa di incredibilmente concreto, qualcosa che ha funzionato. Nel libro hai raccontato delle attività di volontariato con gli anziani, delle missioni nei villaggi remoti dell’ Albania a costruire banchi per le scuole, del desiderio di fare il giornalista e poi dell’arrivo, non facile, al mondo della progettazione. Mondo in cui all’inizio non ti riconosci. Oggi sei un imprenditore sociale, il Consorzio Sale della Terra, che guidi, è una delle esperienze più virtuose del Sud Italia. L’impressione è che in progetto, in ogni azione, la natura di quel volontario adolescente, fosse rimasta integra, immutata. Anzi addirittura potenziata 

Io non volevo essere un imprenditore, neanche un imprenditore sociale. Volevo però fare politica come la intendeva don Lorenzo Milani. Lui diceva: “politica significa uscire insieme dai problemi”. Quindi per fare politica bisogna radunare un gruppo, chiamare gli altri, lavorare insieme. Credo che l’economia sociale funzioni allo stesso modo, e che l’idea di don Milani sulla politica possa essere applicata all’imprenditoria sociale. Per me ha funzionato così: vedevo dei problemi e per uscirne ho messo in piedi delle imprese sociali. L’impresa sociale per me è solo uno strumento di gruppo per dare una risposta duratura nel tempo.

L’impresa sociale per me è solo uno strumento di gruppo per dare una risposta duratura nel tempo

Nel libro c’è tanto della tua storia personale. Racconti dell’incontro con Fatyon in Albania. Era il 1996, avevi 18 anni. In una pausa domenicale durante una missione Vincenziana, per costruire banchi per una scuola elementare nel villaggio di Masterko, nella regione Mirdita, è nata una relazione. Fatyon era un bambino, non parlavate la stessa lingua, ma in qualche modo vi siete capiti. Tu scrivi che una delle più importanti lezione sul Welfare te l’ha data proprio lui, durante quell’incontro.

Con la sua determinazione ad essere guardato, con la pretesa di essere ascoltato anche se non capito, con la richiesta fisica di essere dentro una relazione con un adulto, Fatyon insegna il “disapprendimento” necessario a costruire una epistemologia che rompa lo schema lineare-nordico basato sulle cosiddette “teorie di avanguardia”, perché l’avanguardia è un sapere che si basa sull’assunto dell’accumulo: più informazioni cognitive aggiungo al mio bagaglio più mi avvicino al progresso. La “retroguardia” di un pensiero meridiano invece, come il welfare cercato da un bambino, rompe lo schema lineare dell’ipotesi “sviluppista”, retta sulla certezza dell’organizzazione di un servizio reso, ed inserisce un modello circolare di interazione tra infanzia ed adultità. Fatyon, con la sua forma di vita e la teoria che ne discende, è testimonianza dei saperi del buen vivir, del ben vivere, che provengono dai sud del mondo. Questo sapere meridiano, come scrivo nel libro, è un po’ come la saggezza descritta da Tolstoj: «La saggezza umana non consiste nel conoscere le cose. Perché c’è un’infinità di cose che si possono sapere; e conoscere il più possibile non costituisce saggezza. La saggezza umana consiste nel conoscere l’ordine delle cose che è bene conoscere, consiste nel sapere disporre le proprie conoscenze secondo la loro importanza. Ora, di tutte le scienze che l’uomo può e deve conoscere, la principale è la scienza di vivere in mondo da fare il minor male possibile e il massimo bene possibile; e di tutte le arti, quella di sapere evitare il male e produrre il bene (…)».


La rivista dell’innovazione sociale

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Quanto l’essere volontario ha inciso sull’imprenditore sociale che sei diventato oggi?

In realtà non mi piace definirmi imprenditore, neanche imprenditore sociale. Perchè sono stipendiato dalla mia organizzazione. Ho scelto questa cosa fin da quando siamo nati nel 2001, oggi siamo 420 collaboratori e cooperanti, e ho sempre creduto e continuo a credere che la mia storia dipenda e deve essere collegata alle persone che lavorano con me, così come a chi fa parte dei progetti che realizziamo. Anche qui devo rifarmi a don Milani. Lui diceva alla moglie del medico che il marito non doveva fare le tariffe in base a quelle degli altri medici, ma in base alle esigenze della casa dove andava a fare le visite. Ecco io ho sempre lavorato pensando ai “bisogni della casa”, quindi in estrema sincerità non per arricchirmi o comprare ogni anno una macchina nuova, ma puntando a vivere bene e di reciprocità. Il mio obiettivo non è fare utile, il mio obiettivo è fare in modo che tutti quelli che lavorano con me possano vivere bene. Quindi in pratica volontario e imprenditore sociale sono la stessa cosa per me. Lavorando sempre con l’obiettivo di “uscire insieme fuori dai problemi”.

Nelle pagine iniziali del libro scrivi «Il welfare del Sud si misura solitamente al contrario: non su ciò che “è” o che “fa”, ma su ciò che non va e che non c’è: lavoro, servizi, inclusione sociale, fondi”. Le nostre classifiche sono solitamente capovolte; la qualità di vita al Sud si misura sulla speciale menzione del “meno peggio”: la città del meridione che ha uno standard “alto” è la prima delle città che ha punteggi “meno disastrosi” rispetto alle altre sue colleghe del Mezzogiorno e che appaiono in classifica dopo le migliori e le centrali (Bolzano, Modena, Belluno, Trento, Milano, Perugia…). Secondo queste classifiche i territori del Sud in cui si vive meglio, sono quelli che distaccano di molto gli ultimi, che da tempo immemore sono comunque in direzione meridiana (Crotone, Vibo Valentia, Foggia, Benevento…). La storia del ritardo strutturale del Sud, come ha ben denunciato Carlo Borgomeo in una sua recentissima pubblicazione, non può essere però affrontata e risolta ricorrendo ai tre soliti luoghi comuni: le colpe dell’egoismo del nord, le colpe della classe dirigente del sud, la colpa della “mentalità” del sud. Secondo l’autore, queste ragioni sono tutte in parte vere, ma l’insieme di tali motivazioni non è in grado di dare risposta alla domanda sul fallimento di settantadue anni di politiche per il Sud». E allora per uscire fuori dalle classifiche e raccontare una storia che c’è ma non si vede,   non ti chiedo che cos’è il welfare meridiano, ma: come si fa il welfare meridiano?

Si fa partendo dal noi. Nella questione meridiana si rimette al centro la questione umana. Non “fare i progetti per fare i progetti”, non “vincere i bandi per vincere i bandi”. Faccio un esempio concreto, nel libro parlo di salute psichica: con il consorzio avremmo potuto costruire un centro, una grande clinica psichiatrica, ma non l’abbiamo fatto. Proprio in Campania, che era tristemente nota come “maglia nera del Welfare”, vigeva l’unica legge regionale esistente in Italia per l’applicazione dei Progetti Terapeutico Riabilitativi Individualizzati sostenuti con Budget di Salute. Nella terra dei sistemi clientelari della sanità pubblica, nel Paese in cui le lobby della sanità privata fanno sentire i loro morsi al servizio sanitario nazionale e dove il Terzo Settore era più o meno comunemente delegato al compito di “servitore sciocco”, sia del pubblico che del privato, scoprire all’improvviso che, invece, esso potesse essere scelto direttamente dai pazienti per un budget da spendere, liberamente ed in modo efficace (rispetto all’obiettivo), per socialità, habitat, affettività, lavoro e formazione, fu come aver scovato una pietra filosofale. E quindi per i pazienti psichiatrici bisogna investire sui piani individualizzati. Avremmo potuto fare progetti nelle carceri, ma per noi era più importante portare le persone fuori, e creare per loro opportunità di lavoro all’esterno. 

Quindi il welfare meridiano che racconti nel libro è un welfare “fuori dagli schemi”?

Devi decostruire. Non serve un asilo nido che prenda in carico i bambini. Serve che i bambini stiano con persone competenti fin dalla primissima infanzia. E allora il welfare separtaista a cui siamo abituati divide tutto: il welfare per la parità di genere, quello per i malati, quello per gli ex detenuti, quello per gli anziani. Invece il welfare del pensiero meridiano unisce. E se fossero gli anziani a prendersi cura dei bambini? Il problema è che  il welfare efficiente per gli anziani si compone principalmente di “case di riposo” e strutture similari, e non si basa sui progetti di vita personalizzati, allora, secondo la legge di Say, vuol dire che i parenti di Alberto, quelli che vivevano in altre parti di Italia e che non avevano modo di occuparsi di questo padre anziano e solo nel Sud, sono indotti a pensare che ci sia una sola risposta per il loro babbo: una casa di riposo confortevole in cui fargli trascorrere i suoi ultimi giorni in maniera “protetta” (altra parola per cui nutro grande antipatia). E, come in ogni circolo vizioso che si rispetti, a questa domanda sia lo Stato che il Terzo settore rispondono con nuove strutture dedicate agli anziani. Un bambino migrante in una piazza è un grande animatore per gli anziani, questa cosa va valorizzata. Come? Mettendo in dialogo la casa che accoglie gli anziani e quella che accoglie i migranti. Dobbiamo creare relazioni di prossimità dentro le comunità. Il welfare non può essere fatto solo di servizi, deve essere innestato nella vita, non separato dalla vita. 

Nella questione meridiana si rimette al centro la questione umana. Non “fare i progetti per fare i progetti”, non “vincere i bandi per vincere i bandi”

Quando hai deciso di scrivere il libro?

Dopo la pandemia. In Lombardia, dove si pensa ci sia il welfare più solido d’Italia, perchè lì c’è il “welfare delle strutture”, i sistemi non hanno retto com’è invece successo al Sud. E nel Sud ha retto perché è un welfare della prossimità. Faccio un altro esempio, pensiamo alla Calabria: è la regione più povera d’Europa con gli sprar oggi Sai (sistemi di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo) migliori d’Italia. Queste cose ci devono far riflettere. Ci sono dei genius loci, ci sono caratteristiche identitarie del Sud Italia, che funzionano e che probabilmente nessuno vede perché siamo abituati ad osservare le cose con gli indicatori del Nord, ed è normale che se usiamo solo quelli non riusciamo a cogliere il Sud. Possiamo fare un altro esempio ancora per raccontare questo genius loci del Sud, pensiamo all’accoglienza dei migranti. In qualunque parte del mondo riconoscono il modello Riace come il primo vero modello di accoglienza diffusa. Questi sono solo alcuni esempi, ne potremmo fare tanti altri.

Che vuoi dire con questo libro?

Che se il welfare meridiano conquista la penisola ci guadagniamo tutti.

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