Medio Oriente
Pro Israele o pro Palestina? Oggi conta solo fermare il massacro
Dopo oltre 10mila morti fra ebrei e palestinesi a quasi un mese dal 7 ottobre dichiararsi sostenitori di una parte o dell'altra non ha alcun senso. L'unico sforzo collettivo e dibattito civile da fare è quello che porta al "cessate il fuoco"
L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha causato la morte di oltre 1.400 persone in Israele, secondo il governo israeliano. Dall’inizio del conflitto sono poi morti 332 soldati, alcuni dei quali al confine con il Libano.
Dall’altra parte secondo Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha generato quasi 8.800 vittime palestinesi, tra cui 3.648 bambini.
Stiamo con gli ebrei israeliani o stiamo con i palestinesi musulmani? Stiamo con la democrazia di Israele o stiamo con i terroristi di Hamas? Sono più vittime i ragazzi del rave del Nova Festival o i bambini bombardati a Gaza? Domande prive di senso in questo momento
Di fronte a questi numeri, di fronte ad immagini atroci, di fronte all’ingiustizia di vite giovanissime a cui è stato tolto il futuro, da che parte stiamo? È questa la domanda a cui siamo spinti e contro la quale ci spingono oggi i media. Stiamo con gli ebrei israeliani o stiamo con i palestinesi musulmani? Stiamo con la democrazia di Israele o stiamo con i terroristi di Hamas? Sono più vittime i ragazzi del rave del Nova Festival o i bambini bombardati a Gaza? Qual è la nostra gerarchia del dolore?
Diceva Alex Langer (riferendosi allora alla ex Jugoslavia) che il pacifismo è «complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute “buone” e “vittime”, e neanche con l’idea che un massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la regione».
Il pacifismo è complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche
Alex Langer
Siamo sulla strada sbagliata. Perché in fondo, facendoci quelle domande, ci stiamo chiedendo se siamo più giusti a stare da una parte o dall’altra. In realtà non siamo preoccupati dal destino di migliaia di persone, stiamo interrogando noi stessi su dove sia più opportuno posizionarsi. Ma questo non è il tempo delle bandierine. Non è il tempo del pacifismo tifoso o dogmatico (sempre per stare a Langer). È il tempo del pacifismo concreto.
E la concretezza impone di guardare con altre lenti il disastro in Medio Oriente. Impone di schierarsi radicalmente dalla parte delle vittime, di chi oggi muore, perde e ha perso figli e genitori, amici e fratelli. I morti sono oltre 10mila e vanno contati insieme, ebrei e arabi. Da che parte stiamo? Dalla parte di chi vuole fermare la mattanza (vd l’ultima newsletter di VITA Weekly). Di chi chiede con tutto il fiato che abbiamo in corpo il “cessate il fuoco”.
In questi giorni con le organizzazioni del comitato editoriale di VITA stiamo condividendo un appello chiedendo proprio questo: «L’immediato stop alle armi per garantire gli aiuti umanitari, la liberazione degli ostaggi per ripartire col dialogo». E lo facciamo «proprio perché non dimentichiamo nemmeno per un attimo gli ebrei sgozzati nei kibbutz e le ragazze e i ragazzi uccisi mentre ballavano e non smettiamo di pensare alle loro speranze spazzate e alla dignità mortificata, crediamo di poter condividere il dolore altrettanto irreparabile dei loro coetanei palestinesi a Gaza, decine di migliaia di ragazzi, bambini e bambine. Per questo chiediamo con tutta la voce che abbiamo in corpo che Israele interrompa i suoi bombardamenti indiscriminati e l’assedio a Gaza lasciando spazio alle iniziative umanitarie chieste da tutto il mondo.
La società civile ha il dovere di rimettere al centro della discussione l’importanza del diritto internazionale e la necessità di alzare la voce per difendere la dignità e i diritti umani di tutte le persone coinvolte nel conflitto, sia di chi si aspetta che tornino a casa i loro cari, sia di chi vive dall’8 ottobre sotto le bombe, senza acqua, senza luce e senza cibo».
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