Ospedali

Le chiavi per prendersi cura dei bimbi in oncologia? Salute e formazione

Nel settore dell'oncologia pediatrica è fondamentale che il personale infermieristico sia formato e si aggiorni costantemente, perché si tratta di un settore delicato, in cui la presa in carico è di tutta la famiglia. Necessario è anche aiutare i professionisti a difendersi dal burnout, rischio tutt'altro che remoto quando si lavora in ambiti così emotivamente impegnativi

di Veronica Rossi

Il particolare della spalla di una bambina, a cui le mani di un medico appoggiano uno stetoscopio

In ospedale è fondamentale che tutto il personale sia qualificato e in continuo aggiornamento. Questo è vero per tutti i reparti, ma lo è particolarmente per un settore delicato come quello dell’oncologia pediatrica, dove a essere preso in carico è l’intero nucleo familiare. La formazione, inoltre, permette di prevenire un fenomeno purtroppo molto frequente tra gli infermieri, il burnout, dovuto alla sofferenza a cui ogni giorno i professionisti sono sottoposti. È proprio di questo che hanno parlato le infermiere Anna Maria Viteritti e Giulia Petruccini al congresso dell’Associazione italiana ematologia e oncologia pediatrica – Aieop, tenutosi a Bologna a inizio ottobre. L’Associazione genitori oncologia pediatrica – Agop ha iscritto tutto il personale infermieristico del dell’Unità operativa di oncologia pediatrica della fondazione Policlinico universitario A. Gemelli- Irccs a questo importante evento. Uno dei capisaldi di Agop, infatti, è l’aggiornamento e la formazione dei professionisti che ogni giorno lavorano coi bambini.

Qual è l’importanza di una formazione costante, soprattutto in un settore delicato come quello dell’oncologia pediatrica?

A.M.V. – Innanzitutto, come in qualsiasi professione, aggiornare le proprie conoscenze è un modo per mettersi in gioco. Quando c’è l’occasione di andare ai convegni che si svolgono sul territorio ci si confronta con diverse realtà e già questo aiuta a non rimanere ancorati alla propria mentalità. L’ambiente di lavoro resta sempre un ambiente chiuso, invece in questo modo si ha l’opportunità di vedere altre realtà e guardare il proprio lavoro con occhi diversi. Nell’oncologia pediatrica questo è molto importante, perché con le esperienze che fanno i nostri colleghi o che facciamo noi quotidianamente, possiamo apportare dei benefici alla nostra professione ma anche delle innovazioni di grande aiuto nella pratica quotidiana.

Quali particolari accortezze bisogna avere nell’ambito dell’oncologia pediatrica?

G.P. – Sicuramente ce ne sono diverse, anche perché ci andiamo a interfacciare non solo col bambino ricoverato ma con tutta la famiglia intorno. La multidisciplinarietà nel reparto è molto presente. I convegni di formazione permettono proprio l’incontro tra i vari professionisti che si occupano della presa in carico del bambino e della famiglia, dal punto di vista sanitario ma non solo. La parola chiave è complessità. È l’intera famiglia che ha diverse necessità e ha bisogno quindi di diversi professionisti. È un lavoro di squadra, non del singolo. Se i professionisti riescono a comunicare tra loro è come formare una catena, che significa portare benefici sia ai pazienti che ai caregiver.

Come si può trattare con un bambino in una situazione così delicata e con la sua famiglia?

G.P. – Torna ancora l’importanza di essere in aggiornamento e di essere formati, perché la famiglia e il bambino necessitano di risposte in termini di cure, non solo dal punto di vista clinico, ma di presa in carico. Prendersi cura del bambino e della famiglia significa – semplificando un po’ – accogliere le difficoltà, individuare i problemi e trovare le possibili soluzioni all’interno del ricovero. Al di là del ricovero c’è lo spostamento della famiglia, necessità di accogliere persone da altre regione, accompagnarle, spiegare loro come funziona il ricovero. È un vero e proprio accompagnamento a seconda del percorso di cura.

A.M.V. – Dipende anche dall’età pediatrica. Noi ci troviamo ad assistere diverse fasce d’età, assistiamo il bambino dai 0 ai 18 e anche oltre, a volte. La formazione del professionista è sempre centrale perché più siamo formati, più abbiamo conoscenze, più ricerchiamo per metterci in gioco quotidianamente e metterci in confronto con il paziente – anzi con la persona, perché dobbiamo parlare sempre di più di un’umanizzazione delle cure – più riusciamo a svolgere al meglio il nostro ruolo.

Anna Maria Viteritti e Giulia Petruccini, primo piano
Anna Maria Viteritti e Giulia Petruccini

Avere a che fare tutti i giorni con sofferenza così grande può essere provante, anche per i professionisti. Come si può evitare il burnout?

A.M.V. – Nessuno di noi ha una corazza. Vuoi o non vuoi c’è sempre quel paziente che ti porti dietro, ci pensi quando esci dal lavoro, quando torni a casa. Io e Giulia abbiamo parlato proprio di questo argomento al convegno a Bologna, facendo una ricerca in letteratura, per capire quanto venga indagato il burnout tra gli infermieri pediatrici di oncologia a livello nazionale e internazionale e abbiamo scoperto che è veramente poco studiato.

E invece perché è importante studiarlo?

G.P. – Studiando abbiamo individuato quali possono essere le cause, così da poter agire su di esse. Attraverso la revisione della letteratura, ne abbiamo riconosciute alcune. Alcune sono più immediate da individuare, come la possibilità che l’infermiere abbia una maggiore sensibilità, empatia o qualche grado di fragilità. Ma ne abbiamo trovate anche altre che per noi sono state una sorpresa, come l’organizzazione del reparto e la mancanza di supporto da parte dell’ospedale.

Cosa si può fare, quindi, per evitare il burnout?

A.M.V. – Innanzitutto quello che viene naturale, aiutarsi tra colleghi nel luogo stesso di lavoro. Questo però crea un equilibrio un po’ precario, perché vivendo tutti i giorni a contatto con la sofferenza dei pazienti, ci sono dei momenti in cui è tutto il gruppo a essere colpito. La letteratura ci dice che servono diversi tipi di intervento, per esempio le sedute di psicoterapia di gruppo o laboratori in cui scrivere le proprie ansie e le proprie frustrazioni.

G.P. – C’è bisogno anche di una figura preposta a raccogliere le difficoltà degli infermieri. Noi, per esempio, grazie al rapporto con la fondazione Thun, abbiamo fatto un laboratorio in cui abbiamo individuato i pro e i contro della nostra professione, che sono stati poi tramutati in un lavoro in ceramica, che attualmente è in cottura. La parola centrale che abbiamo portato al congresso di Bologna è “salute”, quella dell’infermiere, ma anche quella del gruppo di lavoro e dell’azienda ospedaliera, che può così garantire le cure necessarie.

A.M.V. – Come codice deontologico, dobbiamo garantire la cura dell’assistito. Ma se non siamo in salute noi non possiamo accompagnare tutti i giorni la persona nel suo percorso di guarigione o nel suo percorso verso una morte serena. È brutto da dire, ma quando non c’è più niente da fare siamo chiamati anche a questo.

La sala di un convegno, con Anna Maria Viteritti che parla con un microfono dietro a un leggio coperto dal poster del congresso
Foto del convegno fornita da Agop

Parlavate dei pro e contro del lavoro, quali sono?

A.M.V. – I pro sono veramente tanti. I sorrisi dei bambini, per esempio, ti riempiono il cuore. Passare al mattino e vedere che giocano con te che sei estraneo alla famiglia o quando ti identificano come parte della famiglia. A volte diventiamo delle zie. E questo può essere anche un contro perché si può creare un attaccamento anche pesante nei confronti dell’infermiere. Poi ti accorgi che cresci anche diversamente rispetto ai tuoi coetanei, sviluppi un animo ipersensibile, riesci a entrare meglio in empatia con le persone. Di negativo c’è che a volte per proteggerti eviti situazioni di cui conosci già la fine; una cosa terribile, sicuramente, è vedere morire i bambini. Sono tanti anche i contro. Purtroppo questo argomento mi lascia spiazzata, anche se ora sono anni che lavoro in questo settore.

G.P.– pro e contro si bilanciano, bambini e famiglie danno tanto. Di contro c’è stress, coinvolgimento emotivo, sentirsi a volte invisibili come professione infermieristica. Questo è un po’ un retaggio della figura dell’infermiere sociale, che non è legato la reparto, perché le famiglie e i bambini si fidano tantissimo di noi e ci fanno sentire al centro del percorso di cura.

Che cosa consigliereste a un giovane che ora inizia ad affacciarsi alla professione infermieristica e vuole farlo proprio in questo settore?

A.M.V. – Di lasciare stare se non lo fa con il cuore. È una cosa che non possono fare tutti quanti, perché ti coinvolge al 100%, le difficoltà sono tante e a volte ti chiedi perché devi vedere tutta quella sofferenza. Ti mette tanti dubbi. Già lavorare con gli adulti è così, coi bambini ancora di più. Devi essere un professionista preparato, saper agire in caso di urgenza, saper riconoscere i principi attivi dei farmaci, ma se non ci metti il cuore diventa cosa meccanica che può fare chiunque. La differenza la fa il grado di empatia e la passione che metti nel tuo lavoro.

Foto in apertura da Pixabay

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