Famiglia

Il mio cinema. Al plurale

Chi ha detto che il documentario è morto? In America Michael Moore ha un successo straordinario. In Europa c’è Nicolas Philibert, francese (di Raffaella Beltrami).

di Redazione

«Nei miei film, io cerco sempre di raccontare una storia, di ?trascendere? la realtà immediata. E molto in fretta lo spettatore si sente ?con? i personaggi filmati, condividendone gioie e dolori». Occhi mobili e vispi quelli di Nicholas Philibert, colgono l??invisibile? quegli occhi. Quel che ogni giorno fa soffrire, fa gioire, fa vivere, lui sa coglierlo. Nato a Nancy nel 51, è cresciuto a Grenoble in una famiglia numerosa, «dove i giochi di parole e le prese in giro non si contavano». Ora vive a Parigi ed è uno dei più bravi documentaristi in circolazione. Ha esplorato l?universo dei non udenti in Nel paese dei sordi (passato solo nei circuiti d?essai, con la calda segnalazione di Werner Herzog), quello delle patologie mentali in La moindre des choses, e la magia del teatro in Qui sait?. E infine Essere e avere, il film che ha unito in tutta Europa critica e pubblico, visto da milioni di francesi che lo hanno trasformato nel documentario di maggior successo economico nella storia del Paese. Ma per lo spettatore soprattutto una lezione di vita, attraverso le giornate di una scolaresca nella sperduta Alvernia. Vita ha incontrato Nicholas Philibert in occasione della retrospettiva a lui dedicata dall?Infinity Festival di Alba, seconda edizione di un appuntamento che vede cineasti e cinefili soffermarsi sulla dimensione spirituale e umana delle pellicole. Vita: Nel suo cinema, che unisce al desiderio di comprendere la realtà una forte partecipazione emotiva a quel che accade di fronte all?obiettivo, a un certo punto sono comparsi dei bambini… Philibert: E dire che il progetto iniziale andava in tutt?altra direzione: il mondo rurale. Sono partito per i sopralluoghi e, senza che sapessi bene perché, ha preso il sopravvento l?idea di un film su una scuola di paese: il rapporto fra maestro e allievi, come l?insegnante aiutava a superare le difficoltà, ad acquisire fiducia in se stessi, a rispettarsi reciprocamente e a rispettare se stessi. Ho visitato molte classi, ma, a Saint-Etienne sur Usson, sono stato conquistato dalla personalità del maestro: un?apparenza autoritaria unita a un?attenzione profonda, un essere delicato e pudico. Vita: Come è riuscito a conservare l? autenticità dei bambini ? Philibert: È essenziale farsi accettare, far sì che non sentano la mia presenza come giudicante. Per tutta la durata delle riprese, mi sono mosso con la massima discrezione, per non ostacolare la vita del gruppo, ma l?idea di riuscire a farsi dimenticare mi pare assurda. Del resto, l?eventualità che un bambino guardasse nella direzione della macchina da presa non mi disturbava. Vita: A che cosa rimanda il titolo? Soprattutto la ?e? che unisce i due verbi… Philibert: Ai verbi fondamentali, gli ausiliari, con cui si costruisce una frase. Sono i simboli dell?apprendimento. Penso che il mio film parli anche di questo. Di crescere, comprendere, capire. Quella congiunzione è fondamentale: crea il nesso e ci avvicina, fa sì che ci sentiamo meno soli, nel momento in cui allacciamo dei rapporti sociali. Bisogna dotarsi degli strumenti giusti e capire le differenze che ci sono con gli altri, fare un lavoro su se stessi. Mi rendo conto che possa sembrare un po? utopico, ma io mostro nei documentari delle piccole comunità, propongo uno spunto di riflessione: viviamo in un mondo violento, dove bisogna individuare le cose che possono mostrarci quale strada intraprendere. Non mi interessa fare un discorso sociologicamente fondato e rappresentativo: un documentario non è necessariamente realtà nuda e cruda, e nemmeno una fotocopia della realtà. Vita: Perché ha scelto di dedicarsi al genere documentaristico? Philibert: Il caso, credo. Il mio immaginario non funziona a circuito chiuso. Filmare quel che mi sta davanti, quel che conosco e incontro è un modo per parlare di sé. E questa strada mi permetteva di capire meglio chi fossi. Ho capito presto che la fiction non era la mia strada: l?idea di girare con una partitura dettagliata, dove tutto, la storia, i personaggi, i dialoghi, sono scritti in anticipo, non mi attira. Mi piace l?improvvisazione, costruire un film facendolo, giorno per giorno, senza avere già in mente come finirà. Questo richiede disponibilità ed elasticità. Una pellicola presuppone di essere sinceri con se stessi, restare il più possibile vicino a quel che si vuole fare. Vita: Temi importanti nei suoi documentari sono la comunità e l?individuo. E come l?individuo si rapporta con la necessità di creare un gruppo e partecipare alla realizzazione di un lavoro comune. Philibert: La questione della comunità è presente e lo sarà sempre più nei miei film. Come far spazio agli altri, ai ?diversi? da noi, come costruire qualcosa, dar vita a un progetto. Mi interessa mostrare come lavorare e vivere insieme. Ho insistito molto su questo in Nel paese dei sordi: come guardare i sordi, e interagire con persone che hanno un sistema di comunicazione diverso dal nostro. Vita: Come si è avvicinato a questo mondo, il paese dei sordi? Philibert: A un certo punto della mia vita ho incontrato dei non udenti e mi è venuta voglia di fare un film che fosse un viaggio in questa comunità. Innanzitutto, per la voglia di modificare lo sguardo che normalmente abbiamo nei loro confronti, spesso solo filtrato dal punto di vista dell?handicap, della mancanza. Volevo cambiare la prospettiva, che costantemente è di compassione e pietà. Poi ho scoperto e capito che il linguaggio dei segni aveva molto a che fare con la grammatica del cinema. Filmare dei sordi significa azzerarla. Bisogna sempre mostrare i loro gesti, quindi il volto e le mani. Vita: All?inizio del film, un concerto introduce in un mondo che sa di favola. Il suo cinema è sempre un po? attratto da questa dimensione Philibert: Raccontando storie mi attacco ad alcune persone che diventano poi i miei personaggi. Mi attacco nel senso che mi affeziono, mi toccano emotivamente per come sono e per le storie che vivono. E se nel mio cinema si può parlare di questo aspetto di fiaba è perché non vado ad approfondire il lato sociologico, ma parlo di emozioni, che non appartengono solo alle persone di cui racconto, ma sono universali. Vita: Come il senso dell?umorismo che lo anima… Philibert: Essere sordi non significa essere depressi e tristi, anzi, la capacità espressiva è grande quanto la nostra. Con la lingua dei segni si possono descrivere 2.500 fiori o alberi diversi. I personaggi che ho scelto esprimono le loro difficoltà, come si sentono proiettati nel mondo degli udenti, e quanto sia stato complicato vivere la loro crescita: tutto traduce una dignità e un senso dell?umorismo che ci seducono. E lo spettatore perde la paura del diverso. La stessa cosa avviene in La moindre des choses, dove i protagonisti sono i cosiddetti folli. Vita: Che cosa l?ha spinta a filmare in una clinica psichiatrica? Philibert: All?inizio non ero convinto, mi facevo scrupoli a puntare una macchina da presa su persone che soffrono e non riescono a contenersi. Un giorno, però, sono andato a parlare col direttore. È stato lui a convincermi: «qui non c?è niente da vedere, quando vorrà fare un film sull?invisibile, sarà il benvenuto». Dire una frase del genere a un cineasta, non può che essere un invito. Cos?è questo invisibile? Sono le cose che non saltano all?occhio, che bisogna leggere tra le righe, prendendosi molto tempo. Vita: La narrazione segue la preparazione di uno spettacolo teatrale. Ha messo in scena la recitazione come terapia? Philibert: Attraverso la recitazione queste persone che soffrono hanno potuto sperimentare uno scollamento da sé, una proiezione terapeutica per un io malato. Mi ha molto colpito l?incontro con esseri abitati dalla follia e ho così avuto l?occasione di scoprire una corrente di pensiero che sento vicina: la psicoterapia istituzionale, ovvero l?idea che bisogna creare le condizioni e gli strumenti perché il desiderio venga alla luce, perché un avvenimento possa aver luogo. Vita: Pensa che i suoi documentari possano aiutare a capire, a costruire una coscienza civile? Philibert: Se i film potessero cambiare il mondo, sarebbe già successo da tempo. Quel che i registi sperano, è di fare condividere allo spettatore il loro punto di vista sul mondo. Un?incidenza sulle coscienze può essere un piccolo aspetto di un cambiamento. Vita: Qualche nuovo progetto? Philibert: È ancora troppo presto per parlarne, ma ho voglia di continuare in questa direzione, un cinema di cose piccole, pratiche, banali ma con un forte valore. L?invisibile. Un cinema impegnato ma nella direzione opposta a Michael Moore, che affronta direttamente i soggetti politici, economici e sociologici. La questione politica per me si traduce nel ?come si vive insieme?, nella convivenza sociale. C?è una grande differenza tra il suo cinema e il mio: da una parte si impone una visione del mondo, dall?altra ne viene proposta una delle tante, come un invito a pensare, un?offerta di strumenti per. Vita: È questa la filosofia Philibert? Philibert: La questione centrale non è il soggetto di un film, tenere un discorso sul mondo o sui massimi sistemi. Si tratta di aprire gli occhi, imparare a guardare e prendersi il proprio tempo, cercare di stare ?con? quello che filmo. Stare ?con? significa essere presenti a quello che succede, far qualcosa insieme, capire cosa abbiamo in comune. di Raffaella Beltrami


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