Famiglia

Bucarest-Roma

Roma, sottopasso vicino alla stazione Termini. La nostra collaboratrice fa amicizia con tre piccoli fratelli, venuti dalla Romania. (di Chiara Ludovisi)

di Redazione

“Sono un bambino povero, la mia famiglia è povera, vivo di carità, per favore signori”. Nel sottopassaggio della stazione, la sua voce rimbomba e copre il rumore dei passi affrettati della folla che, a quell?ora, si reca trafelata al lavoro. La luce è scarsa, ma la piccola figura si distingue chiaramente: seduta a gambe incrociate su un pezzo di cartone, con la schiena poggiata alla parete, illuminata da una parte e dall?altra dalle due aperture del sottopassaggio. Qualche ora dopo, l?ora di pranzo: la stessa stazione, la stessa litania. Seduto sul cartone, ripete instancabile il suo ritornello, nel viavai della folla: a quest?ora, soprattutto bambini e ragazzi che, con gli zaini sulle spalle, tornano da scuola chiacchierando ad alta voce fra loro. Mi avvicino a lui: «Come ti chiami?», gli chiedo, piegandomi sulle ginocchia per riuscire a guardarlo negli occhi. Sorpreso, mi chiede: «Chi, io? A.». Il suo sorriso invece esprime stupore. A. ha un bel viso, gli occhi neri, la carnagione scura e una scatola di plastica con pochi spiccioli davanti a sé. Ringrazia educatamente chi gli lancia qualche moneta. «Da dove vieni?». «Tiburtina!». «No volevo dire, dove sei nato?». «Ah, Romania». Sorride dell?equivoco. Gli chiedo quanti anni abbia e il ghiaccio si scioglie definitivamente: «Diecidue». «Si dice dodici». Ridiamo insieme della svista. Approfitta e mi chiede di insegnargli i numeri fino a venti. Resto a parlare con lui circa un?ora, ha voglia di chiacchierare, ma sembra sapere esattamente quando dire la verità e quando, invece, convenga mentire. «Vai a scuola?». «Sì, sempre. È bella la scuola. Mi piace». Non sa tenere il gioco, però, perché poco dopo, quando gli chiedo quando posso trovarlo alla stazione, mi dice: «Tutti i giorni, dalle 10 alle 16». È in Italia da un anno, ha imparato l?italiano abbastanza bene. Abita «in una casa sulla via Tiburtina». La casa è grande, mi spiega. «E la notte non fa freddo, fa caldo». La Romania è bella, mi assicura, ma l?Italia gli piace di più, perché «in Romania non avevo una casa. In Romania, se lavori mangi, se non lavori non mangi. In Italia, se lavori mangi, se non lavori mangi lo stesso». «Oggi hai mangiato?». «Oggi no, non ancora», mi risponde serenamente, «quando avrò due euro, papà mi compra da mangiare». Il padre ?lavora? a un semaforo, poco distante . La mamma pulisce i parabrezza, ma «lei fa pochi soldi». Ha una famiglia numerosa, A., non riesce a credere che io sia figlia unica: padre, madre, quattro maschi, quattro femmine. Ma due sorelle sono in Romania. Nel piatto, A. conta due euro: «Vado a mangiare. Quando torni, mi porti un album per disegnare?». Pochi giorni dopo, stessa stazione, stessa litania, stessa figura seduta sul cartone, nell?oscurità del sottopassaggio. Mi avvicino, ma non è A., anche se gli somiglia molto. «Tu sei il fratello di A.?». «Sì, il fratello di A.», mi risponde sorpreso. Poi aggiunge: «Mi chiamo P.». «P. come la città?», gli chiedo. «Sì, sì, come la città», risponde divertito. P. sa leggere e scrivere: mi racconta che in Romania andava a scuola, «fino alla quarta. A., invece, fino alla quinta». La storia che mi racconta non corrisponde esattamente alla versione del fratello: anche P. mi parla della casa sulla Tiburtina, dei fratelli e delle due sorelle, ma per quanto riguarda la scuola, «una signora viene a casa e ci fa studiare». Gli chiedo di raccontarmi qualcosa del viaggio dalla Romania all?Italia: sono arrivati «in macchina, perché in nave ti fregano e l?aereo fa paura». Il viaggio è stato lungo: «Due ore». Nota la mia perplessità, ride, si corregge: «Due giorni». Gli regalo l?album e le matite che avevo portato per A.. Incredulo, non finisce di ringraziarmi. Apre la scatola di matite, prende subito il verde e inizia a disegnare. Da quel momento, P. non vede e non sente più nessuno: mi risponde distrattamente, dimentica anche di ringraziare chi gli dà qualche moneta. Concentrato, disegna, prima timidamente, poi con mano sempre più decisa e sicura: sul foglio, lentamente, prende forma una casa col giardino. Il verde si consuma, P. prende l?arancione e, accanto alla casa, spuntano un albero, dei fiori, al posto della finestra un televisore; alla fine, con la matita nera, disegna un bambino, «un bambino negro». Da un angolo del foglio, si affaccia timidamente un sole con bocca, naso e orecchie. Di tanto in tanto, P. stacca, allontana il foglio da sé e lo osserva, reclinando il capo da un lato e poi dall?altro. Passa il tempo, è quasi l?ora di pranzo: «Hai mangiato?», gli chiedo. «Sì, sì», e mi mostra soddisfatto due vasetti di yogurt vuoti. Quando lo saluto per andare via, mi regala il suo primo disegno. Mentre m?allontano, mi richiama. Torno. Mi sussurra: «Mi iscrivi alla scuola?». Il terzo giorno, nel sottopassaggio non ci sono né A. né P.. Fuori, sul marciapiede, a un centinaio di metri dalla stazione, un bambino tende svogliatamente la mano ai passanti. «Come ti chiami?». «Io?», mi chiede sorpreso, «J.». «Conosci A. e P.?». Meravigliato, mi risponde: «Sì, sono il fratello». L?espressione annoiata improvvisamente scompare, J. mi guarda incuriosito e cerca spunti di conversazione: mi racconta della sua numerosa famiglia, mi spiega che il padre lavora a un semaforo non molto lontano. Ma quante persone vivono, in quella casa? «Tante», risponde ridendo, «tante tante». J. ha 10 anni, come P.. La comunicazione tra noi è un po? difficile, non parla bene l?italiano: aiutandosi con i gesti , mi fa capire che è venuto in Italia la prima volta un anno fa. In Romania andava a scuola, “qui no, non posso”, ma non sa spiegarmi perché. Una signora, però, va a casa loro tutti i giovedì: «Nella casa vivono tanti bambini romeni, e la signora ci fa giocare». Gli offro un pacco di biscotti, ringrazia sinceramente e insiste perché ne mangi anch?io. Continua a ringraziarmi. Provo a insegnargli il mio nome, ma non riesce a ricordarlo. Mentre parliamo, si avvicina una ragazza. Ha un bel viso e in mano tiene la spazzola per pulire i vetri delle auto. Ci presentiamo. Liliana ha 20 anni e una gran pancia: aspetta il suo secondo figlio, il primo ha due anni e mezzo. Suo marito ha 21 anni ed è il fratello di J., il maggiore dei quattro. «Il lunedì nessuno dà i soldi. Ma perché?», mi domanda, curiosa e divertita. «Ma perché?». Liliana è la prima a dirmi che sono Rom. Anzi, «zingari», mi dice, per essere sicura che la capisca. La pancia tonda le dona grazia, femminilità e dolcezza. Mi chiede se abbia regalato io le matite e l?album a P.. «Disegnano tutto il giorno, sempre, gli piace tanto». Domando a Liliana perché non abbiano iscritto i bambini a scuola: «In segreteria ci hanno detto che serviva il permesso di soggiorno». «Non è vero», le rispondo, «non serve». J. ci interrompe, per chiedermi, timidamente, se possa regalare anche a lui un album per disegnare. «Ti piacerebbe andare a scuola?», chiedo a J.. «La scuola? Sì!». Gli si illuminano gli occhi. di Chiara Ludovisi


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