Formazione

Guerra & informazione. Il grande fratello di Bagdad

Lo spettacolo della democrazia inizia a mostrare le prime crepe. E rivela come la tv abbia giocato un ruolo sporco (di Giulia Fossà).

di Redazione

Non ammainate le bandiere della pace: la guerra con l?Iraq non é finita e la vittoria è tutt?altro che completa. Più che mai, questo conflitto rivela la sua complessa natura mediatica: abbiamo visto in azione terribili armi di distruzione, bombe micidiali, ma il combattimento più insidioso si svolge dagli e sugli schermi. Nel mio diario fra pace e guerra ho annotato tre fatti assolutamente eloquenti. Venerdì 18 aprile, il Venerdì santo dei cattolici. Al centro della scena del Colosseo, potente simbolo del più grande impero decaduto, un Papa anziano lancia la sfida della croce. L?ha appena ricevuta dalle mani di una famiglia irachena. Pronuncia lentamente dure parole temperate dalla speranza: “La terra è un grande cimitero, un pianeta di tombe”. Parecchi chilometri più a sud, alla periferia di Bagdad, una folla di sunniti incitata dal suo imam conclude la preghiera del giorno sacro con una manifestazione di rabbia e di orgoglio. Sui cartelli c?è scritto: “Né con Bush né con Saddam”. Un?altra folla di sciiti, da sempre antagonisti, si incontra con la moltitudine sunnita in un abbraccio di sapore fondamentalista. La televisione di Abu Dhabi quello stesso giorno diffonde immagini e voce di un fantasma, il ricercato Saddam che dall?aldilà, o dalla clandestinità mediatica, si rivolge al suo popolo per incitarlo a “non avere dubbi” sul destino positivo del Paese, nel nome di Allah. Un particolare sconcerta: un Saddam che arringa le folle mentre le truppe americane prendevano possesso della capitale. Il 9 aprile, singolare coincidenza rimarcata dalla tv araba. è una delle tante stranezze della guerra dai molti enigmi: rileggendo con attenzione i fotogrammi già storici dell?abbattimento della statua di Saddam, colossale spot pubblicitario, i dubbi si fanno forti. Peccato che in quella piazza, piazza Paradiso, non ci fosse alcuna folla, nota Fabrizio Tonello che riesamina l?intera scena alla luce anche di contributi e angolazioni forniti dalla rete. Il messaggio di democrazia è attutito dal rumore di fondo delle armi, dal silenzio attonito degli iracheni, dall?esplosione di razzie e saccheggi. La paura ha tenuto banco in questa guerra condizionando i comportamenti dei militari americani e l?atteggiamento guardingo della popolazione. Per troppo tempo, più di trent?anni, è stato il vero collante sociale del regime, ha tenuto insieme realtà e identità diverse per storia e interessi. Adesso, con il venir meno della paura, avanzano pericolose disgregazioni del tessuto civile e religioso che non facilitano il cammino verso la democrazia. La dice lunga il cinico commento a caldo del falco Rumsfeld a proposito di disordini e ruberie: “Libertà è anche compiere furti e atti di violenza”. Mentre scoppia la crisi umanitaria in modo lacerante, in un Paese nel quale il 60% della popolazione dipendeva dagli aiuti umanitari ancor prima della guerra, si fanno avanti gli appetiti della Ricostruzione. Ha creato diffidenza nelle masse arabe e sconcerto in quelle occidentali l?aver assistito a una occupazione militare che non ha posto le basi di un nuovo ordine, protetto i civili, tutelato i beni culturali, evitato scempi e distruzioni. Premure solo per i pozzi, e il ministero, di petrolio. Il difficile rapporto fra Islam e democrazia nella attuale situazione non trova sponde per costruire i nuovi argini della convivenza. Questa guerra assurda non ha risparmiato neppure la pietà: montagne di cadaveri sepolte in fosse e giardini o dimenticati per strada, semicarbonizzati e putrefatti, vengono riesumati su richiesta dei parenti. E ciò accresce l?orrore e il risentimento: la democrazia ha bisogno di giustizia e di rispetto. Perfino le immagini delle donne viste in ogni evento bellico come vittime, in questa guerra e da questa guerra sono state sfregiate. Ricorderemo a conflitto chiuso più l?espressione del soldato Jessica dopo la liberazione, il volto anonimo della donna bombardata nell?ospedale delle partorienti, o il cipiglio di Condoleeza Rice? Attraverso la televisione siamo stati per la prima volta un po? tutti embedded, arruolati. Assistiamo passivi perfino a un fenomeno inquietante, la moda della guerra. Donne e bambini, giovani indossano con nonchalance abiti e magliettine in tessuto mimetico, con ostentata e stupida vanità, in nome di un consumismo onnivoro. Allora pacifista non mettere via la bandiera: adesso c?è da vincere la battaglia per la pace. di Giulia Fossà


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