Sanità & Ricerca

Alzheimer, quando la musica aiuta la memoria

La Fondazione Sant’Orsola di Bologna ha avviato a settembre un laboratorio di musicoterapia per pazienti con Alzheimer e demenza senile. Una delle novità del progetto è il coinvolgimento dei caregivers, che partecipano a incontri di gruppo guidati da uno psicologo, con l'obiettivo di uscire dall'isolamento sociale nel quale spesso si ritrovano

di Rossana Certini

Stabilizzare o attivare competenze comunicative, espressive e relazionali in persone con Alzheimer. Questo è uno degli obiettivi del progetto di musicoterapia avviato a settembre dalla Fondazione Sant’Orsola di Bologna, a cui partecipano dieci coppie di malati e caregivers, selezionate dalla dottoressa Maria Macchiarulo, responsabile degli ambulatori per i disturbi cognitivi e le demenze. I pazienti coinvolti sono stati suddivisi in due gruppi sulla base della loro età. Chi ha meno di 80 anni segue le sedute di musicoterapia due volta alla settimana, mentre gli ultra ottantenni partecipano una sola volta, per un totale, rispettivamente, di venti e dieci incontri fino a dicembre.

«In questa prima fase sperimentale del progetto», spiega Macchiarulo, «stiamo valutando qual è la frequenza ottimale di sedute necessaria per ottenere un beneficio significativo sull’aspetto cognitivo, comportamentale e sulla qualità di vita del paziente e del suo caregiver. Sulla base dei dati che raccoglieremo valuteremo come proseguire il progetto».

IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, Padiglione delle Meraviglie. Prima seduta di musicoterapia per pazienti di Alzheimer promossa dalla Fondazione Policlinico di Sant’Orsola (Foto Paolo Righi)

Mentre i pazienti con Alzheimeir partecipano alla seduta di musicoterapia i caregivers di entrambi i gruppi svolgono un incontro settimanale con uno psicologo, per approfondire le strategie non farmacologiche di approccio ai disturbi cognitivi e comportamentali dei loro cari.

«Questo appuntamento», prosegue Macchiarulo, «è finalizzato alla socializzazione, ma anche ad affrontare in gruppo problematiche che gli stessi caregivers propongono allo psicologo. Le persone che partecipano al progetto due volte a settimana si incontrano una volta con lo specialista e una da soli. Abbiamo notato che i caregivers hanno già costruito una rete di relazioni tra di loro. Questo è molto interessante perché i familiari di malati con disturbi cognitivi spesso si isolano. Non è facile accettare i cambiamenti della persona con cui si vive. Si crede che sia una situazione che non può essere compresa dalle persone esterne alla famiglia. Con difficoltà i familiari di una persona con Alzheimer riescono a mantenere le amicizie di un tempo. Dunque promuovere la reciproca conoscenza evita la chiusura in casa. È importante che il gruppo impari, pian piano, a divertirsi insieme. L’idea del progetto è proprio quella di raccogliere anche questi dati e quantificare quanto gli incontri possono aiutare i caregivers a ritrovare un benessere psicologico e relazionale».

I caregivers hanno già costruito una rete di relazioni tra di loro. Questo è molto interessante perché i familiari di malati con disturbi cognitivi spesso si isolano

Maria Macchiarulo, responsabile ambulatori per i disturbi cognitivi e le demenze del Sant’Orsola di Bologna


In Emilia-Romagna si calcola siano ormai 70mila le persone che soffrono di una forma di demenza e 42mila quelle colpite da Alzheimer, malattia per cui la terapia è ancora povera di farmaci efficaci. Da qui l’attenzione crescente verso le terapie non farmacologiche.

Abbiamo caregivers che, più dello stesso paziente, hanno difficoltà ad accettare la malattia, perché in fase iniziale occorre ripensare il proprio modo di approcciarsi al proprio caro. Queste coppie sono state scelte proprio perché il progetto vuole aiutare ad accettare la malattia

Maria Macchiarulo

«Attraverso il suono e la musica si cerca di migliorare il benessere dei pazienti sia in una situazione ricettiva, ossia quando la musica si ascolta, sia nella produzione attiva», racconta la dottoressa Marina Falzone, che guida gli incontri di musicoterapia. «Il nostro laboratorio è basato prevalentemente sulla vocalizzazione che è un’abilità spontanea presente in ogni essere umano fin dalla nascita. Una capacità espressiva della persone che è indipendente da altri fattori come, per esempio, la scolarizzazione. Vocalizzando è possibile attivare tutta la muscolatura che è associata alla respirazione e lavorare anche sul mantenimento di abilità linguistiche. La musica, da un punto di vista neurologico, agisce su diverse aree del cervello.

Alcuni pazienti nel primo incontro hanno manifestato l’esigenza di raggiungere il proprio caregiver nella stanza affianco proprio perché non abituati a rimanere da soli. Ma uno dei dati che i professionisti stanno osservando è proprio come già dal secondo incontro i pazienti sono apparsi più sereni, non chiedono più dei familiare che li hanno accompagnati e sono propositivi durante il laboratorio.

Durante il laboratorio cerchiamo di recuperare la memoria a lungo termine andando a ricercare le musiche preferite dei pazienti. Il canto di gruppo è importante perché stimola la relazione e l’incontro con l’altro

Marina Falzone, musicoterapista

«Tra le coppie che partecipano al progetto», conclude Macchiarulo, «abbiamo caregivers che, più dello stesso paziente, hanno difficoltà ad accettare la malattia proprio perché nella fase iniziale occorre ripensare il proprio modo di approcciarsi al proprio caro. Queste coppie sono state scelte proprio perché tra gli obiettivi del progetto c’è anche quello di aiutare ad accettare la malattia. Siamo curiosi di capire alla fine del percorso quale contributo emozionale il progetto ha dato proprio a questi caregivers».

Nella foto di copertina IRCCS Policlinico di Sant’Orsola. Padiglione delle Meraviglie. Prima seduta di musicoterapia per pazienti di Alzheimer promossa dalla Fondazione Policlinico di Sant’Orsola (Foto Paolo Righi)

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