Welfare
Dal singolo alle comunità: così l’arte spinge il cambiamento nei servizi sociali
Un convegno a Brescia per riflettere sul ruolo degli assistenti sociali nel disegnare un nuovo welfare, che superi la presa in carico del singolo per lavorare anche sui contesti, così che le condizioni di partenza non siano un “destino” per nessuno. Una prospettiva a cui gli strumenti dell'arte - dal teatro ai musei - possono dare un contributo importante
ATorino i medici di base visitano periodicamente all’interno del Museo Egizio. All’Accademia Carrara di Bergamo le opere d’arte diventano “cura” per le persone affette da Alzheimer e i loro familiari. A Catanzaro il teatro aiuta i ragazzi del carcere minorile ad “uscire dal proprio ruolo”. In Emilia-Romagna i pediatri prescrivono ai bambini “Sciroppo di Teatro”, un voucher che dà accesso agli spettacoli a soli due euro. Sono alcune delle esperienze di welfare culturale portate a Brescia lo scorso 6 ottobre, nel convegno “Welfare è cultura”, organizzato nell’ambito di Bergamo-Brescia città capitale della cultura 2023 dal Consiglio regionale dell’ordine degli assistenti sociali della Lombardia, dal Consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali e dalla Fondazione nazionale assistenti sociali. «Da un lato queste esperienze hanno portato un’idea di novità, di un approccio che nei servizi ancora non vedi tutti i giorni: però aver sentito il racconto di tante esperienze dimostra che un altro approccio è possibile e quindi ci dà la spinta per far sì che non restino esperienze isolate. E non si tratta “soltanto” di introdurre nel nostro lavoro di assistenti sociali altri linguaggi e altri strumenti, come quelli dell’arte, ma di ripensare con più consapevolezza la cornice della nostra professione e quel ruolo politico richiesto dal nostro codice deontologico, contribuendo al discorso pubblico sulle politiche di welfare»: così Giulia Ghezzi, vice-presidente del Croas lombardo, rilegge la giornata.
Un ruolo a cui ha richiamato con forza, nell’aprire i lavori, anche il presidente nazionale Gianmario Gazzi: «Questi territori hanno toccato con mano cosa può essere arrivare impreparati sull’orlo del precipizio. Solo dopo la pandemia siamo arrivati ad avere quei livelli essenziali delle prestazioni sociali che per 20 anni non c’erano stati e ad affermare che i servizi sociali e i servizi previsti dalla 328 non possono essere sospesi perché sono un diritto costituzionale. Questo ci dà il termometro della cultura del welfare del Paese, perché se i diritti sociali delle persone sono relativi alle risorse o alla sensibilità di un assessore o di un ministro, non stiamo parlando di diritti. La cultura degli assistenti sociali è la cultura dei diritti: noi siamo qui per garantire e tutelare i diritti delle persone e non è una cosa scontata. Noi siamo partigiani di chi non ha voce, questo è il nostro ruolo. Questo convegno ci deve far pensare al ruolo politico della professione: abbiamo la possibilità di costruire altre narrazioni e altre organizzazioni, se non abdichiamo a questo ruolo e non restiamo solo ripiegati sul fare».
La cultura professionale degli assistenti sociali è la cultura dei diritti: noi siamo partigiani di chi non ha voce, è il nostro ruolo. Questo convegno ci deve far pensare al ruolo politico della nostra professione
Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali
Anche la presidente del Croas Lombardia, Manuela Zaltieri, richiamando il mandato politico che lo stesso codice deontologico attribuisce alla professione, invita a pensare alla cultura come a una nuova strategia di progettazione sociale e sanitaria, perché «quando parliamo di cultura che cura parliamo di una cultura che fa bene al benessere e apre la mente al cambiamento, una cultura intesa come leva di innovazione sociale e come fattore abilitante per le fasce di popolazione più vulnerabili, e una cultura come strumento di inclusione ad alto impatto di socialità».
Ghezzi, che cosa vuol dire quel cambiamento di cornice di cui il welfare culturale è esempio e per cui è spinta?
Nelle riflessioni teoriche della mattina è emerso benissimo. La professoressa Mara Sanfelici, dell’Università Bicocca, in particolare è stata molto chiara sulla necessità di passare dal lavoro sul singolo, sul disagio, sugli ultimi, sui “bisognosi” a un lavoro per i cittadini e per i diritti, che si fa lavorando sul territorio e sulle comunità, per creare dei contesti di inclusione. Passare dalla presa in carico del singolo alla presa in carico del territorio, per interrompere quella narrazione rischiosa di un welfare residuale e dicotomico, per cui ci sono degli ultimi e dei primi. Siamo tutti fragili e potenzialmente bisognosi, il punto è che il bisogno diventa reale quando le persone – che hanno condizioni di partenza molto diverse – non hanno incontrato niente fra le sue condizioni di partenza e il momento attuale. Dobbiamo lavorare sui contesti affinché non diventino “bisognogeni”, affinché le condizioni di partenza non siano un “destino” per le persone. Perché non accada è necessario che le istituzioni facciano la loro parte, riconoscendo il fatto che è nel territorio che si possono creare le condizioni di riscatto ed emancipazione per le persone che nascono in situazione di svantaggio. Il lavoro con il singolo farà sempre parte della nostra professione, ma non può racchiudere tutta la professione, bisogna che si intervenga sui contesti, la direzione del cambiamento è questa se vogliamo “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” come ci chiede la Costituzione.
Che si debba lavorare sul territorio, ce lo diciamo sempre: il perché meno. Non perché “è più bello” o “va di moda” ma perché un contesto povero impoverisce chi è già povero
Giulia Ghezzi, vicepresidente del Croas Lombardia
È un approccio diffuso, di cui c’è consapevolezza dentro il servizio sociale professionale?
A livello teorico abbastanza, a livello pratico meno. Che si debba lavorare sul territorio, ce lo diciamo sempre: il perché forse ce lo diciamo meno. Ho molto apprezzato che Sanfelici abbia messo in luce questa dimensione anche etica: non lavoriamo con il territorio perché “è più bello” o perché “va di moda” ma perché un contesto povero impoverisce chi è già povero, amplifica le condizioni di partenza. È qualcosa che non siamo abituati a sentire.
Dai racconti e dalle riflessioni è emersa la percezione da parte degli assistenti sociali che «facciamo cose straordinarie che non diventano mai ordinarie». Un’affermazione che suona come un forte appello alla politica per superare la frammentarietà e per andare nella direzione della stabilità e messa a sistema delle politiche, al di là dei tanti progetti. Cosa resta della tavola rotonda con i politici?
È importante che la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli abbia accolto il nostro invito a partecipare a questa giornata, esprimendo la sua vicinanza alla nostra professione. A lei abbiamo rivolto la nostra richiesta a presidiare la prossima legge di bilancio, per evitare che spariscano proprio le risorse destinate alle fasce più deboli della popolazione e sul sociale. Ci è dispiaciuto che l’assessora alla Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità di Regione Lombardia, Elena Lucchini, all’ultimo non sia riuscita a partecipare, ma la aspettiamo senz’altro alla prossima occasione perché sappiamo che è attenta al nostro mondo. Da parte di tutti i rappresentanti regionali presenti – Lisa Noja e Pierfrancesco Majorino per il consiglio regionale lombardo, Roberto Rossini per il Consiglio comunale di Brescia e l’assessora al Welfare della Regione Toscana, Serena Spinelli – abbiamo raccolto la disponibilità a lavorare per una nuova cultura di welfare, coinvolgendo il nostro Ordine in quanto soggetto rappresentativo della professione e dei servizi di tutta la Lombardia.
Le esperienze di welfare culturale che sono state presentate sono state lo spunto per ragionare soprattutto su come gli strumenti dell’arte e della cultura possano entrare nella “cassetta degli attrezzi” degli assistenti sociali, anche partendo dalla loro formazione sia universitaria che continua.
È stato molto interessante constatare che i nuovi scenari delineati non sono tutti da costruire, ma ci sono già esperienze attive in tal senso un po’ in tutta Italia: dal teatro utilizzato nel carcere minorile di Catanzaro all’Accademia Carrara di Bergamo che dedica dei momenti alle persone con Alzheimer e i loro familiari, dal parco di Albano Laziale restituito alla collettività da un’azione collettiva imperniata sull’opera delle persone con disturbi mentali al lavoro di comunità portato avanti dall’Ambito della Bassa Bresciana. Elena Cabiati, coordinatrice del corso di laurea triennale in Scienze del servizio sociale presso le sedi di Milano e di Brescia dell’Università Cattolica ha evidenziato proprio l’importanza che nella formazione continua gli assistenti sociali cerchino anche questi aspetti: noi come ordine ci prendiamo l’impegno di provare a diffondere questi approcci e modalità di lavoro ispirati all’arte. Anche qui abbiamo apprezzato molto la chiarezza nel dire che esistono ricerche che hanno studiato perché si usa l’arte nel servizio sociale e quali effetti produce l’arte. L’arte nella social work education produce tre risultati principali, cioè l’espressione, l’avvicinamento empatico e la rottura. L’arte è un mezzo che aiuta studenti e operatori a “tirar fuori” pensieri e vissuti, ma anche ad andare più in profondità; l’arte aiuta ad avvicinarsi alla condizione dell’altro, per coglierne vissuti ed emozioni, “come se” fossero i nostri; terza cosa permette di superare le rigidità di pensiero, gli schemi precostituiti e gli automatismi, le abitudini. Rispetto agli effetti dell’arte nella formazione, al di là della gradevolezza dell’approccio: agevola la pratica riflessiva, la comprensione dell’annoso rapporto tra teoria e pratica e aiuta ed esplorare le ambiguità e i dilemmi della pratica quotidiana. È evidente che sono leve molto preziose per lavorare sulle e nelle comunità.
Avete chiuso la giornata con uno spettacolo offerto dal Croas della Lombardia in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Brescia: la compagnia Tedacà di Torino ha portato in scena Fine pena ora…
Dopo una giornata in cui abbiamo discusso del welfare culturale, ci è sembrato il coronamento ideale offrire a tutti i presenti uno spettacolo teatrale che in modo toccante e profondo ha messo in scena la corrispondenza che si sono scambiati per quasi quarant’anni un ergastolano e il suo giudice, Elvio Fassone. La sceneggiatura l’ha scritta Simone Schinocca, un “assistente sociale teatrante”, a riprova che i due mondi, artistico e sociale, hanno davvero tanto in comune. Durante la serata abbiamo toccato con mano quello di cui ha parlato la professoressa Cabiati, la potenza dell’arte per entrare in empatia, per immedesimarsi in una storia che non è la tua, una vicinanza empatica che però è anche – contemporaneamente – riflessione critica sulle istituzioni che sono chiamate a rapportarsi con la devianza.
Foto di Priscilla Gyamfi su Unsplash
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