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Iraq: gli Usa, occorre un autoritarismo benevolo
La dottrina statunitense si arricchisce di un altro caposaldo dopo la guerra preventiva. Le libere elezioni? No, meglio un po' di autoritarismo....
di Paul Ricard
“Bush sottovaluta il pericolo Islam Serve un autoritarismo benevolo. La fine di Saddam minaccia di lasciare campo libero agli estremisti islamici. Temo che Bush abbia sottovalutato il problema”. In un?intervista al Corriere della sera lo studioso Daniel Pipes – cui la Casa Bianca ha affidato l?”iniziativa per il mondo musulmano” – sostiene che “la soluzione è un regime autoritario benevolo, per democratizzare il Paese in un decennio o più”.
Pipes ritiene che “gli Stati Uniti vinceranno la battaglia per la democrazia in Iraq con le armi della società civile”, ma crede che per prevenire l?instaurazione di un regime religioso musulmano serva una fase di “autoritarismo democratico di 5-10 anni”, forse di più. “Il modello turco”, esemplifica.
Fino a che punto il problema è grave?
“Al punto che se non si corre in fretta ai ripari, l’Iraq rischia di fare la fine dell’Algeria o della Jugoslavia. Non si può dire nulla di buono di Saddam Hussein, tranne una cosa: che reprimeva l’integralismo. La fine del suo regime minaccia di lasciare il campo libero agli estremisti sciiti, se non anche sunniti”.
Come mai l’amministrazione Bush appare impreparata?
“Non so quanto lo sia. Non so, per esempio, che strategia seguirà il generale Jay Garner, l?amministratore civile in Iraq. Ma temo che la Casa Bianca abbia sottovalutato questo problema perché troppo impegnata sul fronte militare e su quello economico. E anche per un difetto culturale: non tutta l’America è consapevole di cosa significa la militanza islamica: un’ondata che travolse l’Iran e rischia di travolgere altri Paesi”.
Che cosa intende per “armi della società civile”?
“La libertà di pensiero, di parola, di stampa. I diritti umani. Le riforme sociali. Il mercato. Tutti i capisaldi delle democrazie occidentali. L’unica maniera di neutralizzare le spinte fondamentaliste in Iraq è di farne uno Stato aperto, moderno, un esempio per il Medio Oriente e il Golfo Persico”.
Come? Trasformandolo in un protettorato americano?
“No. Noi dobbiamo andarcene il più in fretta possibile. Una nostra presenza prolungata aggraverebbe il problema. La soluzione è un regime autoritario, secolare e benevolo, con un impegno preciso a democratizzare il Paese nel corso di un decennio, se necessario di più. Un processo dall’alto in basso, come avvenne in Turchia o a Taiwan”.
Niente libere elezioni?
“Non a breve termine, sarebbe un errore. Non parliamo di ex Paesi comunisti dove la maggioranza della popolazione era d’accordo sul cambiamento e lo fece partire dal basso. Parliamo di un Paese dove si stanno regolando i conti, dove le etnie e le religioni sono in conflitto tra loro, dove si rischia il caos. Il nostro compito è di sponsorizzare un governo illuminato e forte”.
E chi ne sarebbero i leader?
“Secondo me, non gli esponenti dell’opposizione interna, senza rapporti con il mondo esterno, ma quegli iracheni in esilio che si sono preparati a gestire il potere e sentono di appartenere alla comunità internazionale. Sono nostri alleati, e sono certi che il totalitarismo religioso possa essere sconfitto. Uno è Ahmed Chalabi”.
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