Famiglia ed educazione

Non lasciamo soli i genitori: ne va del benessere dei loro figli

I primi anni di vita sono fondamentali per gettare la base del carattere e del benessere dei giovani. Secondo la professoressa Paola Milani, tuttavia, la responsabilità di gestire questo periodo cruciale non va demandata solo ai genitori, che non vanno abbandonati a sé stessi.

di Veronica Rossi

Un bambino di pochi mesi a pancia in giù su un tappeto peloso beige. Guarda in alto sorridendo, ha una cuffietta

La scienza parla chiaro: i primi mille giorni di vita sono fondamentali. È proprio in questo periodo, infatti, che si gettano le basi del carattere. Compresi tutti quei tratti che troppo spesso vengono ancora associati soltanto alla genetica, come empatia, intelligenza, curiosità, disponibilità a imparare. Molte delle problematiche che i giovani dimostrano, hanno cause che affondano proprio in questi anni cruciali. Paola Milani, professoressa ordinaria di pedagogia sociale e pedagogia delle famiglie e direttrice del Centro di pedagogia e psicologia dell’infanzia dell’università di Padova, ospite domani al Festival Fin da piccoli del Centro per la salute del bambino, ritiene che il ruolo dei genitori in un periodo così fondamentale sia importantissimo. Ma pensa anche che queste figure non vadano lasciate sole: non si nasce genitori, si impara a esserlo. Con l’aiuto della comunità. L’evento si terrà alla Casa di The human safety net a Venezia, che aderisce appieno all’iniziativa. «Il Centro per la salute del bambino è un nostro partner sin dal lancio di The human safety Net nel 2017», dice Emma Ursich, segretaria generale della fondazione. «Cerchiamo sempre di dare il massimo supporto ai nostri partner di fiducia sia a livello programmatico che logistico. Il nostro programma dedicato alle famiglie è presente in 24 Paesi, su tre continenti, in più di 400 città e finora ha trasformato le vite di più di duecento mila bambini e genitori. Sono i nostri primi sei anni di vita che ci rendono ciò che siamo. Il processo di formazione del cervello nella prima infanzia avviene giorno dopo giorno attraverso relazioni, esperienze e opportunità di apprendimento. Perciò il sostegno ad attività dedicate allo sviluppo infantile precoce, come quelle del Centro per la salute del bambino, rappresentano il miglior investimento possibile nel futuro dei nostri figli».

Professoressa Milani, come mai i primi anni di vita sono fondamentali per la definizione di quello che sarà una persona una volta cresciuta?

Fin dall’inizio del Novecento c’è stata la consapevolezza che quello che succede nei primi anni di vita ha la capacità di modificare, nel bene e nel male, la traiettoria educativa e scolastica di una persona; Maria Montessori diceva che la mente del bambino è «cera molle». Nell’ultimo trentennio c’è stato lo sviluppo delle neuroscienze, in particolare delle tecniche di neuroimaging, come la Tac o le risonanze. Prima il cervello non si poteva studiare in attività, non se ne sapeva il funzionamento, mentre oggi è possibile. Sappiamo che lo sviluppo delle sinapsi è una dinamica prodigiosa dei primi anni di vita e soprattutto abbiamo capito che questa esplosione è legata allo sviluppo di tutte le funzioni, in particolare quelle esecutive, che sono in realzione alle esperienza che un bambino fa nel suo ambiente di vita. Mentre prima si dava molto peso alla sola genetica, ora l’approccio principale è quello dell’epigenetica, l’intreccio tra il contesto e l’apparato genetico. Oggi è completamente obsoleto chiedersi se l’essere umano di basa più sulla natura o sulla cultura, se è più influenzato dai geni o dall’esperienza. L’ambiente è in grado di modificare l’espressione genetica e queste modifiche, secondo alcuni studi, possono trasmettersi anche per generazioni.

Quindi anche le caratteristiche che ci sembrano innate, come l’empatia, possono essere imparate?

Certo. Sappiamo che le famose skills di cui parliamo tutti, quelle cognitiva legate all’esperienza e alla memoria e l’empatia non sono innate, ma si formano a partire da ciò che una persona vive nei primi anni di vita. Giacomo Rizzolatti (considerato uno dei maggiori neuroscienziati italiani, ndr) ha fatto degli studi sui neuroni specchio e ha dimostrato come il rispecchiamento, cioè questa relazione in cui l’adulto si prende cura del bambino, rimanda al bambino un senso continuo di attenzione, quindi di positività sulla sua presenza. È proprio la relazione che il bimbo vive nell’ambiente con le sue figure di riferimento che costituisce, quindi, uno dei maggiori fattori protettivi dello sviluppo umano.

Paola Milani con le braccia incrociate, gli occhiali e una sciarpa bianca
Paola Milani, foto fornita dall’Ufficio stampa del festival

Cosa si può consigliare allora ai genitori per educare i figli al meglio in questi primi e fondamentali mille giorni di vita?

Questa è una domanda cruciale. Le nuove evidenze scientifiche ci impongono di mettere al centro dell’attenzione non solo l’educazione dei bambini, ma anche quella dei genitori, avendo scoperto – anche se era una cosa che nella pratica si sapeva da secoli – che il loro ruolo è così importante. È importantissimo parlare di formazione dei genitori e di sostegno alla genitorialità. C’è tutta una letteratura sul parenting support, di cui mi occupo d 30 anni. I genitori non possono essere lasciati soli a educare i bambini: è veramente una questione fondamentale. E bisogna essere altrettanto fermi nel dire che non dobbiamo dare a loro tutta la colpa se qualcosa va male o tutto il merito a loro se le cose vanno bene.

In che senso?

La capacità genitoriale si forma, non è innata, quindi c’è una responsabilità della società e della comunità di costruire luoghi, servizi, modalità di incontro tra famiglie professionisti e – soprattutto – reti sociali, perché i genitori non siano abbandonati a sé stessi. Anche perché un’altra evidenza scientifica molto forte è che i genitori educano meglio in comunità ricche di servizi e di cultura, dove l’educazione è considerata un bene collettivo, dove se ne parla e si crea su di essa un discorso pubblico.

Quindi bisognerebbe andare un po’ contro la tendenza odierna alla famiglia nucleare, in cui l’educazione dei figli è demandata solo ai genitori, e tornare a un modello più comunitario di cura dei più piccoli?

Sì. Addirittura oggi c’è il rischio che anche la scuola si chiami fuori dall’attività educativa e che gli insegnanti dicano «Noi istruiamo e basta». Nella comunità non ci sono luoghi in cui i genitori possano incontrarsi, confrontarsi e parlare, non c’è un pensiero collettivo sulla risposta ai bisogni di sviluppo dei bambini; è proprio il sistema di domanda e risposta sui bisogni che crea quella realzioni che è la dinamite dello sviluppo dei bambini. I genitori sono i primi responsabili, ma riescono a esercitare questa responsabilità nel momento in cui sono inseriti in una comunità che si prenda cura anche di loro, non solo dei loro figli.

Foto in apertura da Pixabay

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