Welfare

Nuove comunità per nuovi tossici

I tossicodipendenti del 2000 sono bellie puliti, lavorano, non si bucano. Ma sono anche molto più difficili da aiutare di prima. Per questo le comunità di recupero stanno cambiando. Tre esperienze

di Gabriella Meroni

Giorgio ha 29 anni, abita a Bari, è fidanzato e ha un buon lavoro che lo soddisfa. Una vita regolare, la sua: otto ore di ufficio, qualche pizza con gli amici, qualche gita al mare. Tutto normale, se non fosse che ogni sera, per un paio d?ore, Giorgio entra in comunità terapeutica per il programma ?Lavoratori tossicodipendenti? del Gruppo Atri di Bari. Un?idea venuta ai responsabili di questa struttura Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) dopo che tanti giovani non avevano accettato di seguire il programma da interni, a tempo pieno, per la paura di farsi scoprire e perdere il lavoro. «Ormai molti tossici sono insospettabili, attenti a nascondere i segnali della dipendenza», dice Paolo Danza dell?Atri. Così questi lavoratori, di solito trentenni perfettamente inseriti, inventano scuse a raffica con partner e genitori per ritrovarsi a seguire la terapia di recupero: colloqui con psicologi, incontri con educatori, gruppi di auto-aiuto. «È un programma rivoluzionario che si fonda sull?anonimato», continua Danza. «Solo pochi utenti ci hanno chiesto di informare la famiglia. Gli altri cercano di venirne fuori allo stesso modo in cui ne sono entrati: segretamente». Finiti i tempi in cui il drogato aveva stampata in faccia la propria condizione perché viveva in strada, aveva gli occhi rossi e rubava le autoradio. Oggi i nuovi addicted sono belli, puliti e inseriti. Eroinomani, ma soprattutto cocainomani (la categoria che si diffonde sempre di più, stando al numero di sequestri nella Ue) e assuntori di ecstasy. Con loro le strategie delle comunità chiuse e tradizionali, nate negli anni ?80 magari per iniziativa di personaggi carismatici, non sempre funzionano. E così anche le strutture di recupero stanno cambiando. Si specializzano, parlano solo al quindicenne stordito dalla pasticca, o all?impiegato che si tira su con una ?striscia?, o alla quarantenne con figli ancora schiava della siringa. La casa Mimosa di Modena, anch?essa legata alla Fict, ospita una decina di mamme con i loro bambini. Alcune assumevano più di una sostanza, altre si bucavano, altre sniffavano. Tutte stavano lontane dalle ?vecchie? comunità per non abbandonare i figli. Ma a casa Mimosa li possono tenere con sé e intanto seguire il programma di recupero. «Abbiamo modificato non solo la struttura ma anche i metodi», spiega la responsabile della Casa, Grazia Fracconi. «Un tempo erano duri e severi, oggi dobbiamo tenere conto della presenza dei bambini e ci siamo ammorbiditi, oltre ad aver aperto la comunità a molti volontari esterni e perfino ai nonni dei piccoli». Dalle mamme ai ragazzini, l?altra fascia a rischio che in passato non trovava accoglienza. Oggi sono i teenagers a trovarsi in mezzo a un?offerta di droga senza precedenti, e molti a 14 o 15 anni hanno già provato tutti gli stupefacenti disponibili. Lo sa bene Gustavo Salvati, che dal 1990 lavora a ?Il Ponte?, una comunità per adolescenti. Ragazzi che studiano, vanno in motorino e in discoteca, cercano di fare colpo sulle ragazze. Come gli altri. Ma che un giorno decidono che per essere se stessi hanno bisogno di un aiuto in più. «È un?illlusione pericolosa», dice Gustavo, «quella di acquistare una personalità migliore, e quindi di essere più accettati, con la sostanza. Eppure è per questo che cominciano a farsi». Di qualunque cosa: alcol, ectsasy, cocaina, fumo. «Il risultato sono ragazzini distrutti, che non riescono più a studiare, a pensare. Quando arrivano da noi sono da ricostruire da capo».


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