Volontariato

Ragazze madri, figlie mie

La Elda Scarzella ha ancora la passione con cui ha ridato speranza

di Antonella Galli

Mentre parla, ogni tanto Elda Scarzella si concede una pausa, brevissima, e accarezza con lo sguardo le fotografie, i libri, i tanti ricordi che riempiono il salotto della sua casa milanese. Dove domina il viola, in tutte le sfumature. «Un colpo di fulmine», ricorda la signora, «scoppiato quando vidi mia nonna in un lungo abito viola, con gli strass. Da allora, non ho più smesso di amare questo colore. Cerco di indossarlo sempre, almeno in un particolare: le scarpe, un foulard, un gioiello… È un colore che accarezza gli occhi, dona serenità». Con vezzo femminile, Elda Scarzella indugia in una digressione apparentemente frivola. Poi, con lo stesso tono dolce e deciso, ricomincia a narrare il lungo racconto della sua vita. Ed è il racconto di una vita ricca, intessuta di impegno sociale ma anche di indipendenza e, per certi versi, di trasgressione. Una vita che ora è racchiusa nelle pagine di un libro, Percorso d?amore (Giunti, 20 mila lire, pagg. 253). «Ho sempre amato scrivere», racconta, «e questo libro è cresciuto con me, pagina dopo pagina, durante tutta la mia vita. Ma non avrei mai pensato di pubblicarlo, credevo che non potesse essere nulla di più che un diario personale». E nelle pagine di questo diario si ritrovano i ricordi più intimi di Elda Scarzella: gli anni dell?infanzia, l?intenso legame con i genitori, il matrimonio a 17 anni («all?epoca, una vera e propria trasgressione alle regole della buona società, che riteneva inopportuno che una ragazza si sposasse così giovane»), il periodo trascorso in Sardegna, la nascita dei due figli, Donnino e Alberto. Accanto a questi eventi, però, si sviluppa anche l?impegno sociale. All?inizio, in Sardegna, questo impegno si concretizza nella creazione di un asilo per i bambini delle campagne, che ha come prima sede proprio la tenuta in cui viveva Elda. Poi, dopo il rientro a Milano, si sviluppa nell?aiuto alle famiglie bisognose, ai profughi e agli sbandati del dopoguerra. E, soprattutto, nella grande avventura del Villaggio della madre e del fanciullo, un?esperienza unica, destinata a capovolgere l?ottica assistenziale del tempo, che considerava la ragazza madre sempre colpevole e faceva in modo di allontanarla, appena possibile, dal ?figlio del peccato?. «Nel 1945, subito dopo la fine della guerra», ricorda Elda, «passai giorni e giorni alla Stazione Centrale di Milano, insieme a molti altri volontari, ad accogliere i profughi che tornavano in Italia. Erano migliaia, stanchi, spauriti, spaesati, quasi increduli di ritrovarsi così vicini alle loro case. Poi, dopo qualche giorno, cominciarono ad arrivare anche le donne. Le guardavo scendere dai treni, cercavo il loro sguardo ed era dagli occhi, prima ancora che dal fisico, che capivo quando portavano in grembo una vita che per loro significava solo ansia e paura. Era impossibile pensare che potessero essere abbandonate a se stesse, quasi imprigionate negli enormi dormitori allestiti per i profughi». Il Villaggio – dodici prefabbricati messi a disposizione dal Comune di Milano – sorge nel giardino di Palazzo Sormani. E, nelle intenzioni della sua fondatrice, deve finalmente offrire alle future mamme un luogo «accogliente, ricco di stimoli affettivi e culturali, dove portare a termine la gravidanza superando gravi problemi materiali e psicologici». Perché, alle oggettive difficoltà economiche di quel periodo, le mamme del Villaggio devono aggiungere problemi ancora più gravi e penosi da affrontare e superare. «Le ospiti del villaggio», prosegue Elda, «avevano vissuto esperienze terribili. Alcune avevano perso il compagno; altre erano state abbandonate dal padre del loro bambino; molte erano vittime di violenze subite in guerra, dai soldati nemici, magari in un campo di concentramento. E il futuro sembrava non riservare altro che lo stesso dolore: nemmeno le loro famiglie, infatti, si dimostravano disposte ad aiutarle a ricostruirsi una vita. La vergogna, la rabbia, l?umiliazione erano più forti della sofferenza. Ma il ?percorso d?amore? del Villaggio arrivava fino alle madri, ai padri di quelle ragazze e, pur con tanta fatica, scioglieva le incomprensioni. E quando non era proprio possibile che le ragazze tornassero in famiglia, le aiutavamo a costruirsi una nuova casa. Un po? come succede oggi, con le ragazze che i genitori lasciano sole non tanto per vergogna quanto per menefreghismo, quasi pensassero: ?Si è messa da sola in questo guaio, se la cavi da sola?». L?attività del Villaggio diventa sempre più intensa: inizia a occuparsi anche dei minori rinchiusi in carcere, promuovendo, con l?avvocato Majno (fondatore, insieme alla moglie, dell?Asilo Mariuccia) il primo Ente ausiliario per il Tribunale dei minorenni. Il Villaggio diventa noto anche all?estero ed Elda Scarzella viene invitata negli Stati Uniti, per studiare il lavoro dei centri d?accoglienza per le future mamme nubili. «La cosa che più mi sconvolse durante quel viaggio», sottolinea, «fu scoprire come i bambini, pochi mesi dopo la nascita, venissero subito dati in adozione. Ma perché nessuno si preoccupava di quel che ne pensavano le mamme, del loro amore per il piccolo dato alla luce?». Al Villaggio, invece, mamme e bambini restavano sempre insieme, vivevano in una dimensione familiare, in equilibrio tra i momenti di vita comune e gli spazi privati. In quei mesi difficili, ma anche ricchi di voglia di ricominciare, le prime ospiti del Villaggio furono una trentina. Fra esse spiccano i nomi di Margot (le cui nozze, il 12 ottobre 1945, segnarono l?inaugurazione ufficiale del Villaggio) e di Agnese, una ragazzina italo-tedesca che riuscì ad accettare il figlio degli ?uomini cattivi? che l?avevano violentata in guerra. Da allora, al villaggio sono passate migliaia di ragazze. Tutte hanno lasciato un segno nella memoria di Elda. E in tutte è rimasto un segno del suo amore per loro, della passione e del coraggio («senza cui non avrei potuto affrontare tutte le difficoltà, anche economiche») con cui era sempre accanto a loro. E con i quali, ancora oggi, alla rispettabile età di 94 anni, affronta serenamente la vita. ?


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