Se c’è un personaggio atipico, spiazzante, sempre pronto a sorprenderti con qualcosa di non banale, questi è Lorenzo De Rita. Enfant prodige della comunicazione pubblicitaria a cavallo del millennio, a soli 23 anni vinse un Leone d’Oro al Festival della pubblicità di Cannes, in tempi in cui l’Italia, a quella che ancora oggi è la manifestazione più importante del settore a livello mondiale, non vinceva quasi nulla. Erano gli anni ’90 del secolo scorso. De Rita intraprese un viaggio a dir poco strabiliante. Prima a Roma, poi a Milano, infine all’estero, dove ha lavorato per marchi come Volvo, Nike e Adidas (di cui è stato direttore creativo worldwide). In un periodo tutto sommato breve, una quindicina d’anni, ha lasciato il segno in alcune delle agenzie più importanti del pianeta, come la mitologica Wieden+Kennedy, la Kesselskramer, la EuroRSCG di Jacques Séguéla (oggi Havas); ha anche fondato la 180 di Amsterdam; ha collaborato con registi cinematografici del calibro di Spike Jonze e Stephen Frears, e attori come Robert Downey Jr. Strada facendo, ha vinto altri 14 Leoni a Cannes. Uno sproposito, se si pensa che, alla fine, ha firmato meno di 20 campagne pubblicitarie. Ma allora perché, quando si parla di questo percorso davvero invidiabile, racconta sempre che il suo successo fu ottenuto “quasi involontariamente”? Strano concetto. Per iniziare l’intervista, abbiamo chiesto al diretto interessato di spiegarcelo.
Lei ha avuto una carriera, nel mondo pubblicitario, che sembra un sogno. Perché parla di successo quasi involontario?
Ho sempre pensato che ci siano due modi per raggiungere il successo. Quello più classico e conosciuto impone di cercarlo, di inseguirlo a perdifiato, con determinazione, applicazione e cinismo. E poi c’è il secondo modo, tipico di chi pensa che debba essere il successo a trovare te. Il primo modo è più efficace: basta non mollare mai e prima o poi ti porta a destinazione; ma non ha la stessa grazia e bellezza del secondo, che è fatto di fato, di irrazionalità, di leggerezza, di spontaneità, di inaspettato e, appunto, di “quasi involontarietà”. E dico quasi perché il successo non ti viene mica a trovare a casaccio. Per meritartelo ci devi mettere del tuo, che è appunto quel quasi, nel senso che devi rimanere te stesso anche nel momento in cui ti sembra che quel successo non arriverà mai da te. Se fai finta di essere chi non sei solo per farti trovare, il successo mica è scemo, lo capisce al volo e si terrà alla larga da te. Insomma, quel quasi è la possibilità di avere successo e allo stesso momento rappresenta il pericolo di non raggiungerlo mai.
Fa parte, di questa “quasi involontarietà”, anche il fatto che il successo ti raggiunga laddove non avevi pensato potesse raggiungerti, giusto? Per esempio, in un ambito di lavoro che non rappresenta il sogno che avevi da bambino… In diverse occasioni lei ha detto che la pubblicità non le piace. E allora perché si è messo a fare pubblicità? E cosa non le piace, esattamente, della pubblicità?
Può sembrare una contraddizione, ma in realtà una logica c’è. Mi fu spiegata per la prima volta da un amico di mio padre da cui ero andato a chiedere consigli su cosa fare finito il liceo. Io avrei voluto studiare alla Parsons School di New York, al tempo ero molto appassionato di grafica editoriale. Lui mi disse di non farlo, e anzi di fare il contrario, di scegliere la cosa che meno mi appassionava. Mi disse: meno ti piace una cosa, più tenderai a farla in modo diverso dagli altri, da come viene normalmente fatta, e così facendo finirai per farla meglio degli altri. Anche se non l’avevo ancora capito del tutto, finii per seguire il suo consiglio. Quando da lì a poco mi fu offerto di entrare in una agenzia di pubblicità accettai, anche se niente mi appassionava meno della pubblicità. Non so se questa logica è applicabile ovunque, penso sia molto valida per chi lavora con la creatività. Ho scoperto nel tempo che l’immaginazione ha bisogno di insoddisfazione, di brutto, di bisogno di evadere “l’esistente- deludente” per attivarsi. Detto questo, per rispondere direttamente alla sua domanda dirò che se è vero che la pubblicità non mi è mai piaciuta – per quel modo invadente di attirare l’attenzione su di sé, per quella sua abitudine di andare a toccare gli istinti più bassi nelle persone, per quel sorriso finto che mette su tutto, per quel suo non sapere andare al di là di quello che da sempre è – devo anche dire che il “fare la pubblicità” è una cosa che mi è piaciuta molto. Fare pubblicità è una palestra che esercita muscoli mentali che altre attività non riescono neanche a stuzzicare. Raramente ho visto tanta dedizione, pazienza, capacità d’adattamento come in chi fa la pubblicità.
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Ha accennato a suo padre, il sociologo Giuseppe De Rita, una delle menti più brillanti del nostro Paese; uno che per descrivere la società italiana ha inventato neologismi immaginifici che sono rimasti nei manuali di sociologia come “il sommerso”, lo “scheletro contadino”, “la società a macchia di leopardo…”. Quanto c’è di quel modo fantasioso di sintetizzare un concetto in lei?
Credo che il cromosoma della fantasia, se uno ne ho, provenga dall’elica del Dna materno. L’agilità creativa di mia madre era impressionante: ha scritto libri di favole, programmi radiofonici, si è inventata la “TV dei ragazzi” e ha prodotto adattamenti teatrali; per molti anni ha gestito una libreria per ragazzi e con la macchina da cucire poi ci faceva di tutto: arazzi, giocattoli per bambini, collage, oggetti per la casa… E tutto questo mentre si prendeva cura dei suoi otto figli. Credo che quel suo saltellare da una cosa all’altra fosse un modo per non affondare nella realtà di tutti i giorni. Mia madre ha vissuto a mezz’aria per tutta la sua vita, come aleggiando, provando a non toccare terra se non per il minimo indispensabile. Ho imparato da lei quel modo trasognato di vivere e sempre a lei devo il mio amore per i castelli in aria e per i voli pindarici…
Qualche mese dopo aver vinto il Leone di Titanio al Festival di Cannes (premio dato allo spot pubblicitario più innovativo dell’anno), all’apice della sua carriera e conteso da network di comunicazione di caratura mondiale, lei decide di punto in bianco di lasciare la pubblicità.
Non proprio di punto in bianco. Era da un po’ di tempo che sentivo, e soffrivo, un certo imborghesimento del mio modo di fare pubblicità. Tutto era diventato facile, meccanico, stanco. E soprattutto vedevo segni evidenti di cedimento strutturale nelle fondamenta del sistema pubblicitario. C’è una famosa frase di Antonio Gramsci: «Il vecchio mondo sta per morire. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Diciamo che non ho lasciato la pubblicità, mi sono solo levato dal suo chiaroscuro.
Ha preferito andare a esplorare nuovi territori. E così è nato The Soon Institute…
Sì, The Soon Institute è stato, ed è, il mio “osservatorio sulla società che verrà”, una specie di concept room dove sperimentare nuovi modi di pensare, per arrivare alla creazione di nuovi modelli da adottare nella società che verrà, sperando sia migliore. Insieme ai miei collaboratori abbiamo sviluppato nuovi modelli di educazione, di fare politica, di cooperazione, di sostenibilità, di investimento finanziario…
Ma quando dice “sperimentare nuovi modi di pensare”, a cosa si riferisce? Può farci un esempio?
Nel mondo della pubblicità, e molto oltre quel mondo, domina un pensiero tutto basato sul profitto e sulla convenienza personale. Ogni idea è pensata per fare soldi, e quindi è appiattita sui dogmi del mercato, che sono tre: velocità, quantità, efficacia. I brand vogliono che i loro investimenti rendano e che lo facciano nel minor tempo possibile. Viviamo in tempi incandescenti, abbaglianti e frettolosi. Vogliamo tutto e subito. E così le idee in circolo sono diventate troppe, e troppo piccole e di scarsa qualità. Ed è questa minutaglia di “trovatine” che, assortite a casaccio, diventano una sorta di polvere sottile che asfissia la fantasia. All’Istituto abbiamo sviluppato un modo di pensare che si oppone a questo. Un modo di pensare controintuitivo e anti commerciale, che si prende il lusso del tempo e dell’indipendenza mentale, cioè dal non essere guidato da nient’altro se non dalla gioia di pensare. L’abbiamo chiamato “pensiero fosforescente”. È un pensiero che si comporta come quegli oggetti fosforescenti che accumulano energia tutto il giorno e quando tutto è buio si illumina di una luce magari fioca, ma magica e ammaliante; è un pensiero che non ha fretta di completarsi, che non ha paura di essere sbagliato o strano, gli basta essere bello e, proprio per questo, utile alla gente. È un pensiero non vanitoso, non competitivo, che preferisce generare valore piuttosto che produrre denaro.
La rivista che ospita questa conversazione, Vita, si occupa molto di Terzo settore, volontariato, promozione sociale. Tutti temi che so anche a lei cari. Quanto è importante l’immaginazione, quando si affronta un problema sociale?
Immaginazione significa innanzitutto vedere. Vedere cosa ti sta intorno, il mondo circostante, gli altri. L’immaginazione viene classificata secondo otto diverse tipologie; tra queste c’è anche l’empatia, vale a dire la capacità di immaginarsi nei panni di un altro, cercare di sentire quello che lui sente. Alcuni studi scientifici hanno dimostrato che per scattare dentro di noi l’empatia ha bisogno di 7 secondi. Troppi per questi tempi che si muovono al fulmicotone. Pensi solo alle dinamiche dei social network, allo scrollamento continuo di immagini e testi, di post e messaggi… Nel mondo digitale quella manciata di secondi marcano una distanza enorme, quasi un’era geologica. La verità è che il sociale, l’altruismo, la solidarietà, la sostenibilità non vengono né visti né immaginati in quel mondo. Sono invisibili. O, cosa ancora peggiore e dannosa, vengono visti da aziende e addetti alla comunicazione solo quando gli fa comodo e nel modo in cui gli fa comodo. E non c’è niente di peggio dell’ipocrisia di chi fa finta di essere interessato al mondo, quando invece ciò che fa lo fa per interessi propri.
Vuole dire che i grandi temi sociali sono diventati prede del marketing?
Il sociale, così come la politica, ormai da anni comunica attraverso slogan, esattamente come fanno i brand: dal “Me Too” al “Black Lives Matter”, dal “Je Suis Charlie” al “Make America Great Again” di Trump. Che dal punto di vista del linguaggio equivale all’esprimersi a dittonghi. Emetti suoni, non articoli pensieri complessi. La sintesi tipica degli slogan, anch’essa dettata dalla velocità imposta dai tempi, cristallizza il pensiero e impedisce la profondità. Non pensiamo più, non ragioniamo e non sentiamo dentro niente. A me sembra che si sia arrivati a un punto di non ritorno, ma ovviamente qualcosa si può fare e si deve fare. Dovremmo convincere tutti che il deficit finanziario dei nostri giorni non è la cosa peggiore. Il deficit di sensibilità è molto più grave di quello finanziario. E uno è la conseguenza dell’altro: è la mancanza di sensibilità a inaridire la nostra economia, non viceversa.
Il suo nuovo progetto, quello per cui è tornato in Italia dopo 27 anni all’estero, si chiama The Phosphorescent Room, un Centro Studi sull’Immaginazione. Mi sembra di capire che abbia molto a che fare con questa esigenza di ritorno alla sensibilità, e di allontanamento da certe logiche della comunicazione ormai incancrenite
Sì. È l’idea di un luogo che è un posto mentale, o forse addirittura dell’anima, più che una stanza vera e propria. Un posto dove imparare, insegnare, discutere, sperimentare e progettare una immaginazione di qualità, con l’obiettivo di formare una nuova classe dirigente di sognatori e visionari, cui spetterà il compito di immaginare la nuova società in cui vivremo. La stanza è un posto caotico e disorganizzato, non per scelta ma per natura: ha la forma esatta dell’immaginazione, con un perimetro incerto e informe, grande quanto più è grande la curiosità di chi ci entra. Un posto in continuo divenire, mai uguale a sé stesso. Si possono frequentare corsi di formazione in Ingegneria delle Idee, Chimica dell’Immaginazione e tra poco anche quello in Geometria Emotiva; si può partecipare a brainstorming e workshop aziendali intitolati “Come costruire un Castello in Aria”; o venire ad ascoltare uno speech sulla “Ninth Imagination”, che altro non è che la Pseudo-Immaginazione o sulla “Imagenetics”, la genetica dell’immaginazione; si può ottenere l’attestato di “Dragomanno” contemporaneo (originalmente era il traduttore di senso dell’impero ottomano), o farsi un giro nel congresso per Eteronimi e Pseudonimi; leggere i volumi della biblioteca fosforescente, tutti dedicati al tema della fantasia; si può, per chi volesse, diventare soci dello Wise Ignorants Club, un club privato dove la “dotta ignorantia”, e cioè l’intuito, regna sovrano. Insomma, chi entra in The Phosphorescent Room, non capirà bene cosa avrà visto, sentito, letto. Ma può star certo che più tardi, magari molto più tardi, sentirà una luce illuminarlo da dentro e comincerà quasi involontariamente a immaginare cose che neanche pensava si potessero immaginare…
Foto di apertura: archivio VITA
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