Una grande passione per i libri gialli, lui stesso ne ha scritti un paio (“Sui binari del Milano-Roma”, Brioschi 2022 e “Omicidio al Milano Innovation District, Brioschi 2021”), Giovanni Azzone dallo scorso maggio è il quinto presidente di Fondazione Cariplo. Prima di lui si sono succeduti: Roberto Mazzotta dal dicembre 1991 al febbraio 1996; Ottorino Beltrami, dal marzo 1996 al febbraio 1997; Giuseppe Guzzetti, dal 5 febbraio 1997 a maggio 2019; Giovanni Fosti da maggio 2019 al maggio di quest’anno. Curioso fin da ragazzino. I libri sono stati uno strumento per imparare e allargare la mente.
Originario di Milano, 61 anni, è docente di “Impresa e decisioni strategiche” al Politecnico di Milano, di cui è stato rettore dal 2010 al 2016. Fra i diversi altri incarichi è presidente di Ifom, l’istituto di ricerca sull’oncologia molecolare di Fondazione Airc per la ricerca sul cancro ed è stato anche Presidente della Fondazione Comunitaria di Milano.
Azzone oggi guida una macchina filantropica con un patrimonio di circa 8 miliardi di euro che ogni anno investe nel territorio della Lombardia e nelle province di Novara e del Verbano Cusio Ossola 150 milioni di euro. Dall’insediamento fino a questi ultimi giorni il neopresidente ha avviato un fitto tour di incontri proprio in queste province, con l’obiettivo di costruire il nuovo programma di attività di Fondazione Cariplo che presenterà a novembre e le cui linee guida illustra ai lettori di VITA in questo dialogo.
Quali indicazioni ha tratto da questa fase di ascolto?
Il territorio su cui noi operiamo è geograficamente molto ampio, con 11 milioni di abitanti: nessuna fondazione di origine bancaria opera in un contesto come questo: è un territorio fortemente integrato che presenta una fortissima eterogeneità e una fortissima biodiversità al suo interno. Mi piace considerare questi aspetti come una risorsa. La grande responsabilità che io sento è che un’organizzazione come Cariplo, che annualmente eroga interventi per 150 milioni di euro, deve fare in modo che queste risorse vadano a rafforzare davvero le nostre comunità: nel farlo deve considerare gli aspetti peculiari che ha ciascuna di esse.
La grande responsabilità che io sento è che un’organizzazione come Cariplo, che annualmente eroga interventi per 150 milioni di euro, deve fare in modo che queste risorse vadano a rafforzare davvero le nostre comunità: nel farlo deve considerare gli aspetti peculiari che ha ciascuna di esse
Qualche osservazione che raccolgo da questi primi mesi di lavoro e di ascolto. Una è la presenza di dinamiche e di fragilità comuni, che determinano però bisogni differenti a seconda del contesto. Pensiamo al tema dell’invecchiamento, che di fatto è stato messo sul tavolo da tutti gli interlocutori che abbiamo incontrato. I problemi demografici a Como, ad esempio, vanno nella direzione dello spopolamento, che incrocia il fenomeno del turismo. Stesso nodo, ma diversa dinamica nella provincia di Monza e Brianza dove l’invecchiamento si innesta su quello della competitività delle imprese. Nel territorio brianzolo c’è un’impresa ogni dieci abitanti, non essendoci un ricambio generazionale si pone la domanda di come mantenere i tassi di produttività e ricchezza.
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Altro focus: quello della casa. Per esempio: la vicinanza con Milano e il boom dei prezzi delle abitazioni del capoluogo lombardo, a Lodi e a Novara sono visti con attenzione perché può offrire un’opportunità di sviluppo, e di accoglienza a con costi inferiori. Per Lecco invece l’aumento dei prezzi delle case sta producendo dinamiche di spopolamento. Siamo insomma di fronte a problemi comuni che necessitano di risposte non standardizzate.
Come quali obiettivi e spirito state scrivendo il nuovo programma per i prossimi anni?
I punti sono quattro: creare valore condiviso, ridurre le disuguaglianze; allargare i confini, creare le condizioni abilitanti al rafforzamento delle comunità. Una comunità forte è una comunità che interpreta tutte le fragilità come delle opportunità. Per rafforzare questa fondamentale infrastruttura sociale, che è la nostra missione, dobbiamo agire su alcune direttive, creando valore condiviso e sostenibile sul lungo periodo. Torniamo per un momento al ragionamento che si faceva su Monza e Brianza e al ricambio generazionale del tessuto produttivo. Se noi siamo in grado di connettere questo bisogno alla presenza delle persone che giungono in Italia da altre parti del mondo, allora quello che oggi è percepito come un problema diventa una soluzione. Il valore deve essere condiviso: e quindi, ad esempio, non va a vantaggio di nessuno un territorio spaccato tra una Milano che luccica e un resto che in qualche modo prende le briciole. Ridurre le disuguaglianze, anche tra luoghi e tra le persone che li abitano è un vantaggio per tutti, occorre operare come in un ecosistema, dove se un anello della catena soffre, alla fine soffrono tutti Abbiamo concluso il nostro tour sui territori dicendo laddove esistano progetti che puntino sviluppo delle comunità in questa direzione noi ci siamo, insieme alle istituzioni e al Terzo settore. Ognuno nel rispetto del proprio ruolo e con il fondamentale apporto della rete di organizzazioni non profit. Fondazione Cariplo può essere quell’elemento che grazie alle risorse di cui dispone innesca dinamiche virtuose. Ma senza il Terzo settore, i progetti rimarrebbero solo sulla carta. Se le cose accadono lo dobbiamo a quelle persone che si prodigano e a cui dobbiamo dire grazie. Diciamo che noi siamo l’enzima che innesca la reazione…
Qual è lo stato di salute del Terzo settore?
Nel viaggio tra la Lombardia e il Piemonte, abbiamo trovato un Terzo settore che è attivo ovunque, però con connotazioni e attenzioni su temi diversi. Certo sappiamo che sta affrontando un periodo difficile, con poche risorse e meno volontari. La percezione però è che su tutto il territorio su cui opera Fondazione Cariplo il Terzo settore c’è: va aiutato. Non possiamo permetterci di perdere questa rete importantissima. L’invecchiamento tocca anche il volontariato e il Terzo settore; occorre anche saper cogliere la sfida dell’innovazione tecnologica. La legge sul Terzo settore porta poi a una serie di adempimenti burocratici eccessivi che talvolta possono generare un allontanamento dall’impegno civile. C’è chi dice: “passo il mio tempo a scrivere moduli, ma non è il motivo per cui faccio il volontario”. Occorre trovare l’equilibrio perché la burocrazia non tolga la passione alle persone.
Cosa significa dare risposte non standardizzate?
Dobbiamo provare a dare risposte ai bisogni dei singoli in modo chirurgico. Mi piace parlare di welfare di precisione. La standardizzazione è superata, lo vediamo in molti ambiti della nostra vita. Le faccio l’esempio dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: tema che preoccupa e su cui in tanti stiamo lavorando. L’idea di creare moduli formativi e percorsi uguali per tutti, non tiene più. Allora bisogna andarli a prendere uno per uno, e costruire percorsi specifici: stiamo parlando di persone in difficoltà. Per riuscirci bisogna cogliere il loro problema specifico, capire perché sono finiti in un vicolo cieco. Questo non si fa con gli standard. Ma se non facciamo così, finisce che sprechiamo risorse, e – ciò che è peggio – le vite di questi ragazzi. Fondamentale il ruolo delle reti di prossimità e del Terzo settore, che è anche in grado di avvicinare il mondo profit. Come si può realizzare un welfare di precisione? Occorre disporre di dati dettagliati e aggiornati sui bisogni specifici di ciascuno; è singolare che noi forniamo un mare di dati quando facciamo acquisti online, così che il venditore ci profila fino a conoscerci nei dettagli per proporci nuovi prodotti, ci ingolosisce, e ci dà quello di cui apparentemente abbiamo bisogno. Perché non poter arrivare a disporre di questo dettaglio sulle cose davvero importanti? Se una mamma ha bisogno di un aiuto per tenere il bambino, inutile dargli un pacco di generi alimentari. Difficile? Certo. I problemi complessi non hanno soluzioni semplici.
Si apre l’era della filantropia tech?
La tecnologia va gestita e utilizzata, perché non applicarla in questo ambito? Ovvio che stiamo parlando di strumenti che possono essere messi a disposizione degli operatori, che li può aiutare a fare ancor meglio la loro encomiabile opera di stare vicino a chi ha bisogno. Al corso di Ingegneria Gestionale do agli studenti la possibilità di saltare lo scritto facendo un progetto di iniziativa imprenditoriale. Quest’anno per la prima volta ho detto: potete usare ChatGpt, basta che me lo diciate e non avrete nessuna penalizzazione. Perché lo faccio?
I ragazzi che sono al Politecnico oggi, entreranno in un mondo del lavoro dove utilizzeranno questi strumenti. Quindi dobbiamo adattare i nostri modelli formativi a un mondo che è diverso da quello in cui siamo entrati noi. Così impareremo a gestire le situazioni, non a subirle. Questa stessa logica la immaginiamo adattata al nostro ambito: le fondazioni e il Terzo settore devono guardare l’orizzonte per scorgere la via da seguire, anche imparando da chi certe soluzioni le ha già trovate altrove, nel profit o, perché no, all’estero: è importante la creazione di centri di competenza a supporto della crescita digitale (analisi dei dati e intelligenza artificiale inclusi) del Terzo settore in particolare delle organizzazioni più piccole, la povertà digitale colpisce anche le organizzazioni. Ed è una questione – a differenza di ciò che si pensa – che riguarda tutte le generazioni, che rischiano di perdere delle opportunità in ragione del loro ritardo tecnologico.
Su questo fronte operiamo anche con il Fondo Nazionale per la Repubblica digitale, insieme alle altre fondazioni di origine bancaria. Così come, con la Fondazione Con il Sud, operiamo per contribuire a ridurre le disuguaglianze tra varie parti del Paese. Sui problemi dobbiamo avere uno sguardo nazionale e internazionale, non possiamo guardare solo al nostro territorio di competenza. Casi come quello del Parco Verde a Caivano riguardano tutto il Paese e quindi anche noi; ci scuotono e ci interrogano; dobbiamo evitare che situazioni del genere si diffondano ed intervenire laddove si comincia a vedere il degrado.
Tre parole per definire la Fondazione Cariplo di Giovanni Azzone?
La prima è enzima, l’ho detto: ovvero un elemento che non pensa di sostituire qualcos’altro, ma fa crescere le iniziative che ci sono nel territorio. Un secondo termine è coprogettazione: il nostro contributo deve esser quello di un soggetto che interagisce con gli altri. Infine: indipendenza. Noi vogliamo lavorare con tutti, ma per farlo bisogna essere percepiti e dimostrare di essere un soggetto indipendente che guarda alla bontà dei progetti e ai risultati.
C’è chi dice: “passo il mio tempo a scrivere moduli, ma non è il motivo per cui faccio il volontario”. Occorre trovare l’equilibrio perché la burocrazia non tolga la passione alle persone
Chiudiamo con uno sguardo alla vostra capacità erogativa: ogni anno donate circa 150 milioni di euro. Quali previsioni può fare per il futuro del suo mandato?
Il nostro obiettivo è di restare su questi livelli, se possibile crescere ulteriormente. Stiamo lavorando per perfezionare la gestione del patrimonio. Se le cose andranno nel verso giusto, ci potrebbero essere ricadute positive sul versante delle erogazioni. Per ora mi sentirei di affermare due punti fissi. Primo: grazie a chi mi ha preceduto, la Fondazione ha riserve che lasciano tranquilli e una struttura di persone competenti e appassionate. Secondo: non nascondo che nei prossimi anni mi piacerebbe alzare l’asticella.
Ma il tempo per scrivere libri dove lo trova?
I libri sono un modo per raccontare ciò che vedo; cerco di farlo con pubblicazioni non solo per tecnici. L’analisi dei dati è la mia passione, immaginare il futuro studiando i trend e i big data, non è poi così difficile. Si può fare anche con un libro giallo.
Foto di apertura: La presse
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