#Finanza&Etica

Se la finanza fa il cattivo imprenditore, il conto lo pagano i lavoratori

Chi si avvantaggia di ciò? Il più delle volte sono banche e fondi che indirizzano operazioni di finanziamento e investimento a favore di imprese e filiere il cui business si basa sullo sfruttamento di manodopera e il mancato rispetto dei diritti. I casi purtroppo sono numerosi. L'analisi della presidente di Banca Etica, Anna Fasano

di Anna Fasano

Lo sanno benissimo le decine di lavoratrici – perlopiù – e lavoratori di La Perla che il 5 settembre scorso manifestavano rumorosamente a Roma contro la proprietà che aveva rilevato l’azienda nel 2018, quando La Perla, marchio celebre nel settore della moda internazionale principalmente per la produzione di lingerie e costumi da bagno d’alta gamma, aveva ancora 1.500 dipendenti e 150 negozi monomarca in tutto il mondo. Nel 2018 La Perla era già in difficoltà e il declino – purtroppo – non si è arrestato (attualmente la forza lavoro si è ridotta a circa 330 dipendenti in Italia, circa la metà di 5 anni fa) finché, all’inizio di maggio 2023, la proprietà ha dato un segnale di speranza per la ripresa, annunciando che entro un mese sarebbero arrivati i 60-70 milioni necessari per pagare i fornitori e far ripartire lo stabilimento bolognese. Quei soldi – ça va sans dire – non sono stati messi a disposizione, ad oggi.   

Ma chi è il “padrone” di La Perla? Il Gruppo, nel mirino anche del fisco britannico e dopo diversi passaggi di mano avvenuti negli ultimi 10 anni, oggi fa capo al fondo finanziario olandese Tennor, detenuto dal finanziere tedesco Lars Windhorst, che nei giorni della protesta capitolina veniva accreditato di aver acquistato una villa a Beverly Hills per 47,5 milioni di dollari. Dall’assunzione della proprietà di La Perla da parte del fondo Tennor si sono susseguiti riduzioni di personale e ritardi nei pagamenti delle retribuzioni, tanto che lo scorso 5 settembre, per l’appunto, la vicenda è finita sul tavolo delle crisi aperte del ministero delle Imprese e del made in Italy, e la parabola del brand – al di là di ogni miglior auspicio di rinnovato successo – può diventare evocativa di quanto l’azione degli operatori finanziari (banche, fondi speculativi, fondi pensionistici e fondi sovrani, gestori del risparmio…) può incidere sulle comunità.

Dunque, in un Paese come il nostro in cui la tradizione delle aziende di famiglia è ancora fortissima, e viene vista ora quale freno all’innovazione ora come garanzia di paternalistica solidità, la storia di La Perla ci fa pensare ad altre segnate da una relazione burrascosa con lontani finanziatori. Al calzaturificio Moreschi di Vigevano (proprietà del fondo svizzero Hurleys), per esempio, alla Nuovi Profumi di Parma (rinata oggi come workers buyout scaturito dalla storica Morris Profumi, passata per la proprietà di due fondi d’investimento svizzeri), alla ex Gkn di Campi Bisenzio (sedotta e abbandonata dalla britannica Melrose Industries Plc, partecipata a sua volta da fondi finanziari e speculativi di primo livello come Blackrock e Vanguard). Storie il cui esito industriale e occupazionale non è ancora definito, e tuttavia simboliche del fatto che i soggetti finanziari possono risultare portatori di una visione non coincidente con quella dell’economia reale di uno specifico territorio, perseguendo obiettivi e spendendo capacità che non garantiscono la prosperità dell’impresa e un futuro roseo per i lavoratori.

I soggetti finanziari possono risultare portatori di una visione non coincidente con quella dell’economia reale di uno specifico territorio, perseguendo obiettivi e spendendo capacità che non garantiscono la prosperità dell’impresa e un futuro roseo per i lavoratori

Questa discrasia, talora nefasta, diventa eclatante se la “finanziarizzazione dell’economia” si sostituisce all’imprenditoria e viene accecata dalla volontà assoluta di massimizzare il rendimento per gli azionisti, a costo di allontanare le scelte dei manager dal perimetro di salvaguardia della salute economica dell’impresa e del suo capitale umano – i lavoratori -, a costo di comprimere salari e diritti. In un caso simile c’è speculazione finanziaria “fine a sé stessa”, che può servirsi di meccanismi automatizzati come l’high frequency trading (che consente di eseguire migliaia di transazioni al minuto in base ad algoritmi prestabiliti) o del lavoro di professionisti seduti davanti a un terminale. In entrambi i casi il futuro dell’azienda è deciso lontano dalla produzione e, spesso, senza che vi sia conoscenza effettiva dei suoi meccanismi necessari, investendo e disinvestendo rapidamente enormi masse di denaro in quote societarie, asset industriali o beni, con l’unico obiettivo di trarre profitto dai movimenti finanziari, dividendi per gli investitori, magari ignorando le conseguenze che questo può avere sul destino di un’attività economica e sulle sua comunità di riferimento. È una speculazione finanziaria che può essere più o meno spregiudicata, indirizzata sul mercato delle materie prime per la manifattura (la crisi dell’alluminio, complice una carenza effettiva, dura da anni) o su quelle primarie energetiche e alimentari (vedi la spirale tuttora in corso dei rialzi di speculazione e inflazione, o i casi recenti che hanno riguardato il gas e il burro), innescando così dinamiche violente di innalzamento dei prezzi collegati a certi beni, fino a strozzare le imprese e a provocare ristrutturazioni occupazionali, licenziamenti e fallimenti, quando ciò non affama direttamente le persone: lo scoppio della guerra in Ucraina associato ad attività speculative ha generato un picco assoluto dell’indice dei prezzi alimentari della primavera 2022 (dati FAO), ad esempio. 

La domanda è: chi si avvantaggia di ciò? Il più delle volte sono banche e fondi che, alla luce del sole e senza spendersi in approfondite verifiche, indirizzano con qualche leggerezza operazioni di finanziamento e investimento miliardarie a favore di imprese e filiere il cui business si basa sullo sfruttamento di manodopera e il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, quando non degli stessi diritti umani. È l’esempio di fornitori e subfornitori delle griffe della moda internazionale presso i quali, secondo rapporti diffusi da organizzazioni come Clean Clothes Campaign, salari dignitosi e diritti sindacali sono negati sistematicamente, soprattutto nei Paesi del Sudest asiatico e del Sud del mondo. Ma lo stesso può valere per il sostegno fornito alle compagnie minerarie che operano depredando territori grazie a manodopera senza diritti e prevaricando le popolazioni locali, alimentando anche strumentalmente violenza e corruzione. Eppure grandi banche d’affari ed hedge funds continuano a irrorare di denaro questi comparti: un recente studio dedicato al Sudafrica dal titolo Financing mining for transition minerals in South Africa. Are banks doing enough on human rights? prende in considerazione 15 banche (di cui 5 locali e 10 internazionali), principali creditrici delle maggiori società minerarie del Paese, e si chiede se, prima di finanziare queste ultime sia stata condotta un’adeguata due diligence sui diritti umani e sull’ambiente. Lascio a voi immaginare la risposta…


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Ciò di cui abbiamo bisogno è invece invertire gli equilibri, e rendere predominante una finanza responsabile che metta la tutela del lavoro al centro delle scelte, condividendo l’idea di un futuro di benessere collettivo.

Una finanza che analizza e rendiconta gli impatti della propria attività nel creare e propagare il lavoro di qualità, negando ogni supporto a chi genera invece impatti sociali e ambientali negativi sugli occupati e sui territori (sfruttando le persone, inquinando, producendo armi…). Una finanza che, quando fornisce credito, quando investe, si assicura di sostenere imprese virtuose, accompagna il coraggio dei lavoratori di società sottratte alle mafie o gli ex dipendenti diventati soci per ricomprarsi – con sacrificio – un’impresa precedentemente malgestita (magari proprio da un fondo speculativo) e poi liquidata, salvando così occupazione locale e tessuto sociale: storie modello che nascono e stanno sul mercato, come quelle della catanese Geotrans o della Cooperativa  Fonderia Dante di San Bonifacio (Vr) e di WBO Italcables di Caivano

Una finanza che promuova con serietà il lavoro femminile qualificato e parificato, e l’imprenditoria femminile, specialmente in territori e Paesi dove la discriminazione di genere è un tema strutturale di mancato sviluppo. Non è infatti solo una questione di equità – che pure basterebbe – bensì di vantaggio economico straordinario, se e vero che – stando a uno studio pubblicato pochi mesi fa – se l’Europa riuscisse a raddoppiare la quota di donne nella forza lavoro tecnologica, portandola a circa il 45% o a circa 3,9 milioni di donne in più entro il 2027, potrebbe beneficiare di un aumento del PIL tra 260 a 600 miliardi di euro. 
Una finanza che infine, con urgenza, sposti la destinazione delle proprie risorse verso imprese della green economy che creano e sviluppano professionalità attente al futuro del pianeta, i famosi green jobs, che a milioni possono essere generati se anche banche e operatori finanziari smettono di tenere il freno tirato sull’investimento nell’economia – l’unica possibile – imperniata sulla transizione ecologica: investire in questa direzione è un modo per disegnare un futuro più pulito dove, entro il 2050, grazie a un’economia a basse emissioni di carbonio, potremo generare, secondo la Commissione europea, ben 60 milioni di nuovi posti di lavoro verdi altamente qualificati a livello globale (Symbola 2022 su dati Commissione europea). E sarebbe senz’altro solo l’inizio.

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse, Roma: lavoratori della GKN in Piazza del Pantheon prima dell’incontro sindacale al ministero dello Sviluppo economico  Roma

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