Volontariato

Imprese sociali ed imprese civili

Speciale: lezioni di economia civile. Decima puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione
La riflessione che anima l?esordio del Terzo millennio pone una questione ultima: come risolvere quello che è stato chiamato il paradosso della felicità. La crescita del reddito può addirittura provocare una diminuzione della felicità.Che non proviene solo dai beni e dai servizi che il denaro può comprare, come invece è vero con l?utilità.Ma vi sono altre cose che servono molto di più: i beni relazionali. Il tradimento di un discorso economico ?vecchio stile? sta proprio nel dimenticare questa verità
Decima lezione.Fare più utile non significa essere più felici
Cosa distingue le imprese sociali da quelle civili, comunemente incluse nel Terzo settore? Perché i soggetti dell?economia sociale e civile, mentre rivendicano la loro specificità rispetto ai soggetti dell?economia capitalistica, stentano a dimostrare nei fatti la loro differenza? Quanto fondato è il rischio che il Terzo settore possa finire col diventare un sostituto funzionale dell?agire pubblico, un erogatore di servizi sociali certamente utile ai fini della razionalizzazione della spesa sociale, ma incapace di assecondare una trasformazione in senso relazionale delle politiche sociali? In cosa specificamente consiste la socialità dell?impresa sociale se si considera che ogni attività d?impresa, inclusa quella capitalistica, possiede un intrinseco elemento di socialità, come la nostra Carta Costituzionale non manca di sottolineare? E infine, come fare per consentire che il mercato possa tornare ad essere mezzo, come lo fu ai suoi albori al tempo dell?umanesimo civile, per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di politiche di distribuzione della ricchezza che si servono dei suoi meccanismi per raggiungere tale scopo, sia di uno spazio economico in cui i cittadini che liberamente lo vogliono possono mettere in pratica, e dunque rigenerare, quei valori (reciprocità, solidarietà, simpatia) senza i quali il mercato stesso non potrebbe esistere? Sono queste le domande di fondo che intrigano tutti coloro che si occupano di privato sociale. La prospettiva dell?economia civile ci offre un inizio di risposta a queste domande: che possa affermarsi entro il mercato, e non al di fuori o accanto esso, uno spazio economico formato da soggetti il cui agire economico trae ragione dal riferimento a un preciso insieme di valori. Poiché la partecipazione alle attività di tale spazio non può essere separata dalla cultura che ne è all?origine, essa rientra in quel principio di comportamento economico che è la reciprocità. L?aspetto essenziale della relazione di reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani: gli oggetti delle transazioni non sono separabili da coloro che li pongono in essere, quanto a dire che nella reciprocità lo scambio cessa di essere anonimo e impersonale come invece accade nella sfera dell?economia for profit. Ecco perché il principio di reciprocità non può essere confuso con il principio dello scambio di equivalenti. RECIPROCITÀ E SCAMBIO DI EQUIVALENTI Quanto diffusa è, nella realtà, la pratica della reciprocità? A differenza di quel che potrebbe sembrare, si tratta di un fenomeno alquanto diffuso nella realtà delle società avanzate. Non solamente esso è all?opera, in varie forme e gradi, nella famiglia, nei piccoli gruppi informali, nelle associazioni di volontariato, ma la rete di transazioni basata sulla reciprocità è presente in tutte quelle forme di impresa che vanno dall?impresa cooperativa nelle sue molteplici forme, nelle quali la reciprocità assume la forma particolare della mutualità, alle imprese civili. Basti solo ricordare che, come parecchi studi sullo sviluppo economico italiano hanno posto in rilievo, il cosiddetto modello della ?nuova competizione? presuppone, per la sua praticabilità, sia la disposizione a cooperare da parte degli agenti sia un fitto reticolo di transazioni relazionali, la struttura delle quali è molto simile a quella propria dell?economia civile e sociale. Ecco perché non ha senso, né giova, porre il problema della scelta tra principio di reciprocità e principio dello scambio di equivalenti. Come abbiamo già spiegato nelle lezioni precdenti, il mercato non può reggersi, a lungo, sul solo principio del profitto. È ingenuo pensare di fondare con successo tutti i tipi di transazione sulla cultura dello scambio di equivalenti. Se questa cultura diventasse egemone, la responsabilità individuale verrebbe a coincidere con ciò che si è contrattualmente pattuito. Ciascuno farebbe sempre e soltanto ciò che è di ?sua competenza?, con conseguenze grottescamente intuibili. Se la cultura dello scambio di equivalenti non si integra con quella della reciprocità, è la stessa capacità di progresso a risentirne. Si pone, quindi, la domanda: cosa contraddistingue l?impresa civile da quella sociale? Le imprese civili sono quelle organizzazioni la cui funzione specifica è quella di realizzare le condizioni sia per liberare la domanda dal condizionamento, a volte soffocante, dell?offerta, sia per affermare la dimensione relazionale nella fruizione dei servizi di welfare. Si noti la differenza con le imprese sociali. Mentre queste ultime agiscono, per così dire, sul lato dell?offerta, operando in modo da ?umanizzare? la produzione (vale a dire, dimostrandosi capaci non solo di organizzare in modo democratico il processo produttivo ma anche di assicurare che ciò avvenga nel rispetto dei canoni dell?equità), le imprese civili intervengono anche sul lato della domanda, consentendo ad essa di strutturarsi e organizzarsi per interloquire in modo autonomo con i soggetti di offerta, e ciò allo scopo di affermare il principio secondo cui le attività prestate nei processi di riproduzione sociale riguardano anche la produzione di ?significati? e non soltanto di output. Ne deriva che, mentre l?impresa sociale conserva una struttura di governance di tipo single-stakeholder (unica è la classe di portatori di interessi cui spetta il governo dell?impresa), l?impresa civile è a tutti gli effetti una organizzazione multistakeholders. COOPERATIVA SOCIALE,PROTOTIPO DI IMPRESA CIVLE Alla luce di quanto precede, si può dire che la cooperativa sociale è, nonostante l?aggettivo, il vero prototipo dell?impresa civile. Occorre dire che l?invenzione della forma della cooperativa sociale, a partire dagli anni 80 del secolo scorso, rappresenta il grande contributo dell?Italia alla realizzazione pratica del progetto di economia civile. Se l?Inghilterra è la culla dell?impresa sociale (la prima società cooperativa si costituisce a Rochdale, Manchester, nel 1844), l?Italia è la culla dell?impresa civile. La legge 381/1991 viene approvata quando già da oltre un decennio avevano iniziato ad operare quelle organizzazioni che sarebbero poi state chiamate cooperative sociali. Ma perché c?è bisogno anche delle imprese civili? A prescindere dall?autenticità delle scelte effettuate dalle organizzazioni dell?economia sociale e a prescindere dalla capacità di queste ultime di operare in modo efficiente, l?agire dell?impresa sociale corre sempre, in qualche misura, il rischio dell?autoreferenzialità. In altri termini, quand?anche un?organizzazione produttiva non persegua l?obiettivo del profitto, com? è appunto il caso delle imprese sociali, la unilateralità del modo di rappresentarsi i problemi di coloro ai quali ci si rivolge con la fornitura di determinati beni o servizi è una possibilità che non può essere affatto esclusa. È in ciò la spiegazione di ciò che è stato chiamato ?il fallimento del non profit?: una volta posto il vincolo alla distribuzione degli utili, l?organizzazione produttiva si comporta come se fosse una qualsiasi organizzazione for profit; tende cioè a diventare ?isomorfica? a quest?ultima. In verità, l?autoreferenzialità della produzione non è fenomeno esclusivo del modo capitalistico di produzione, ma di qualsiasi soggetto produttore che non risulti controllato dai rispettivi soggetti di domanda. L?impresa sociale non può affermare di essere esente dal rischio di una lettura paternalistica dei bisogni delle persone cui si rivolge, solo perché il suo fine non è la massimizzazione del profitto oppure perché il movente di coloro che in essa operano è lo spirito di servizio o qualche altro obiettivo di natura sociale. Questo significa che mentre per realizzare il modello di welfare mix è sufficiente l?impresa sociale, se si vuole giungere al welfare plurale (di cui abbiamo detto nella lezione 8) è necessaria anche l?impresa civile. Andiamo a concludere. I punti sollevati in queste lezioni rinviano tutti a una questione, per così dire, ultima: come risolvere quello che è stato chiamato il paradosso della felicità tipico delle nostre società avanzate; la crescita del reddito non solo non sempre conduce a un aumento di felicità, ma può addirittura provocarne una diminuzione. Il fatto è che la felicità non proviene solamente dai beni e dai servizi che il denaro è capace di comprare, come invece è vero con l?utilità. Il denaro serve bensì, ma vi sono altre ?cose? che servono molto di più: i beni relazionali, come li abbiamo definiti nella lezione precedente. UTILITÀ E FELICITÀ NON SONO LA STESSA COSA Ebbene, le promesse che le nostre società di mercato fanno di una felicità che dipende dal consumo di beni posizionali porta a sacrificare il consumo dei beni relazionali per poter conseguire il reddito monetario necessario per acquistare i primi (si pensi al tempo crescente che il cosiddetto secondo e terzo lavoro rubano alle relazioni familiari e ai rapporti di amicizia). Ma siccome la felicità dipende in gran parte da questi beni sacrificati, ne deriva il paradosso per il quale abbiamo sempre più ricchezze, ma siamo sempre meno felici, proprio come tanti Re Mida che muoiono di una fame che l?oro non può saziare. In buona sostanza, utilità e felicità non sono la medesima cosa, perché la prima è la proprietà della relazione tra uomo e cose (i beni, i servizi, infatti, sono utili); mentre la felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona. Il tradimento di un discorso economico ?vecchio stile? sta tutto qui: far credere, soprattutto ai giovani, che per essere felici basti cercare di aumentare l?utilità. Eppure, mentre si può essere dei massimizzatori di utilità in solitudine (come il Robinson Crusoe della celebre storia), per essere felici bisogna essere almeno in due, una verità, questa, che la tradizione dell?economia civile aveva capito fin dalle sue origini, ricordandoci che la felicità o è pubblica o non è. A scanso di equivoci, non si vuole qui dire che la produzione e il consumo di ?cose?, cioè di utilità, sia un male e dunque che hanno ragione i sostenitori del modello pauperista. Tutt?altro! Piuttosto, si vuol dire che le nostre società di oggi non sono sufficientemente ?avanzate?, perché non consentono, nei fatti, una vera libertà di scelta, la quale non è semplicemente la scelta all?interno di un menu preconfezionato, ma è, in primo luogo, la scelta dello stesso menu. E in ciò è il senso ultimo della proposta dell?economia civile.


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