Welfare

Zoe, la paladina dei chainworkers

Loro sono i dipendenti di catene multinazionali. Lei è una ragazza milanese che ha fondato un sito per difendere i loro diritti sindacali calpestati. Con grande successo

di Gabriella Meroni

Loro non lo sanno ancora, ma la riscossa della loro vita di lavoratori globalizzati, scandita da orari impossibili, capetti tiranni e odore di fritto non dipende dal governo né dai sindacati, ma da gruppo di ragazzi cresciuti a hamburger e videogames, che passano le serate nei centri sociali e le notti su internet. “Loro” sono i dipendenti delle catene di negozi tutti uguali – ristoranti, mobilifici, grandi magazzini – che sotto un unico marchio e arredamento identico ti servono prodotti tutti uguali, da Roma a New York. I ragazzi invece sono ventenni di Milano che passano le serate ai centri sociali, lavorano nella new economy, sono patiti della stampa underground e non si fidano delle multinazionali. Come Zoe Romano, 28 anni, una delle fondatrici del primo e unico sito italiano dedicato ai lavoratori delle catene (www.chainworkers.org), che aspira a diventare qualcosa di più di un punto di incontro in rete: un vero e proprio movimento di difesa dei diritti di chi viene sfruttato, e non lo sa, dai vari McDonald’s, Ikea, Blockbuster, ma anche Esselunga, Autogrill, Tipico. Tutto comincia quattro anni fa, quando Zoe (che è anche una ex, avendo lavorato per tre mesi da McDonald’s) fa un viaggio in Canada e lì scopre che due ragazze avevano osato ribellarsi agli straordinari senza fine del re degli hamburger e per questo si erano guadagnate l’attenzione del Financial Times. «Sembrava una rivoluzione, finalmente un po’ di consapevolezza dietro i sorrisi d’ordinanza», racconta Zoe con piglio deciso e professionale, più da project manager per il web (lavoro che svolge di giorno) che un’agguerrita cyberguerriera nemica della globalizzazione. «Così ho pensato che anche in Italia, dove le multinazionali erano già sbarcate, si poteva dar voce ai lavoratori delle catene. E ho messo in piedi il sito». È il 1998 e subito Zoe, insieme ad altri amici del Laboratorio studentesco autogestito Bulk di Milano, capisce che i chainworkers italiani non aspettavano altro. «Le catene assumono soprattutto giovani al primo impiego o studenti perché sono più flessibili», spiega Zoe. «O meglio, non conoscendo i propri diritti possono essere “convinti” a essere a disposizione praticamente senza limiti per poche migliaia di lire l’ora. Poi quando non ce la fanno più e cercano solidarietà, trovano solo porte sbarrate». Anche da parte dei sindacati? Sì, spiega Zoe, perché «hanno altro a cui pensare». Per esempio, ai problemi dei lavoratori adulti, i quaranta-cinquantenni che dagli anni ’70 in poi hanno fatto le loro battaglie e oggi, pacificati, costituiscono lo zoccolo duro delle organizzazioni tradizionali. Le catene lo sanno, e per questo puntano sugli under 30. «È un gioco che riesce quasi sempre», dice Zoe, «perché chi è alla prima esperienza pensa di fermarsi qualche mese e poi cercare di meglio, quindi non gli va di inimicarsi i superiori protestando. Lavora e basta». Non solo. Al sito arrivano racconti di veri e propri scontri generazionali. Scrive Davide, 26 anni di cui sette passati in Esselunga: «Ho cercato di fare casino, di farmi eleggere delegato, di farmi valere con i capi. Il sindacato non mi ha appoggiato per niente. Tanto i più vecchi, quelli iscritti al sindacato, avevano un altro contratto, con altri tempi, altri soldi, orario rigido e scatti, mi dicevano che loro le lotte le avevano fatte ai loro tempi e che noi giovani eravamo coglioni e che ci meritavamo quello che ci dava l’azienda». Lavoro, lavoro, lavoro e niente rivendicazioni. Questa sembra essere la filosofia delle catene, resa più digeribile dall’immagine dell’ambiente dinamico, della squadra affiatata, della grande famiglia. «Ti attirano offrendoti un sogno, ma il risveglio è duro», continua Zoe. «Soprattutto perché i patti sono diversi, anzi, non ci sono. Noi non siamo contro la flessibilità. Ma uno deve sapere a cosa va incontro: i turni non vanno comunicati all’ultimo istante, o addirittura mentre si lavora; gli straordinari devono essere retribuiti, e non usati come punizione; niente telecamere per controllare il lavoro, né orario notturno per gli apprendisti, vietato per legge ma ampiamente praticato…». Zoe ne ha sentite tante. Come quella, sulla cui verità giura pur senza fare il nome dell’azienda, delle clausole capestro che una catena farebbe firmare ai dipendenti, costringendoli a impegnarsi a non fare mai causa al datore di lavoro, qualunque cosa succeda. E poi l’ultima tendenza: assumere direttamente dalle agenzie di lavoro interinale, scavancando così la possibilità di iscrizione al sindacato. Da un po’ di tempo Zoe e i suoi amici sono anche usciti dallo spazio virtuale per andare a volantinare in strada, o direttamente nei fast food o nei supermercati, un “pentalogo” del chainworker che informa sulla possibilità di ottenere permessi di studio se si è studenti lavoratori, o di timbrare il cartellino dopo che ci si è tolti la divisa… Cose normali, insomma, tranne che per un lavoratore alla catena. Pardon, della catena. Info: www.chainworkers.org Laboratorio studentesco Occupato Autogestito Bulk, Via Nicolini 36, Milano


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