Volontariato

Piena e buona occupazione

Speciale: lezioni di economia civile. Nona puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione
La questione sul tappeto è quella che mette in crisi tutti i sistemi: la disoccupazione. La società postindustriale può registrare un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, pur essendo vero che essa denuncia un eccesso di domanda di attività lavorative che non trova adeguata risposta. Il che sembra un controsen-so, ma non lo è. È la concezione individualista del lavoro a essere superata nei fatti. Per questo l?economia civile ha invece gli strumenti culturali e pratici per superare questa impasse.
Nona Lezione.Primo,lavorare davvero lavorare tutti
Perché pare così difficile avere ragione, oggi, della disoccupazione? E qual è il nesso tra piena e buona occupazione ed economia civile? Perché pare così difficile avere ragione, oggi, della disoccupazione? Queste le domande con cui ci siamo lasciati nella lezione precedente. Per rispondere, è necessario partire da una constatazione: continuiamo a essere vittime di uno schema concettuale che identifica la piena occupazione con il pieno impiego. Il termine disoccupazione dice di una carenza di lavoro, cioè di impieghi, sul mercato del lavoro. Ma vi sono parecchie altre offerte e domande di lavoro che non transitano per il mercato del lavoro. Si pensi al lavoro domestico, al lavoro che entra nella produzione di servizi sociali; al lavoro erogato da quelle organizzazioni specializzate nella fornitura di beni relazionali: si tratta di attività lavorative che la società apprezza e di cui fa crescente domanda, senza però che esse siano sottoposte alle tradizionali regole del mercato del lavoro. Occorre dunque tenere distinta la nozione di pieno impiego da quella, assai più ampia, di piena occupazione. Eppure, quando si parla di disoccupazione il riferimento è sempre e solo alla categoria dell?impiego. Accade così che la società postindustriale può registrare un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, pur essendo vero che essa denuncia un eccesso di domanda di attività lavorative che non trova adeguata risposta. Quanto a dire che un Paese può registrare, a un tempo, una situazione di elevata disoccupazione e di una ancora più elevata domanda non soddisfatta di attività lavorative. Ora, in ciascuna fase dello sviluppo storico, è la società stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi e la sfera delle attività lavorative, vale a dire tra il lavoro remunerato secondo le regole del lavoro salariato e il lavoro remunerato secondo altre regole o secondo altre modalità. A nessuno sfuggirà che il confine tra la sfera dell?impiego e quella delle attività lavorative è nella nostra società postfordista sostanzialmente lo stesso di quello in essere durante la lunga fase di sviluppo della società fordista. è questa la vera rigidità che occorre superare, e in fretta, se si vuole avviare a soluzione il problema della disoccupazione. Pensare di dare oggi un lavoro a tutti sotto forma di impiego, cioè di posto di lavoro salariato, sarebbe pura utopia o, peggio, pericolosa menzogna. Infatti, mentre nella società industriale l?espansione dei consumi e la lentezza del progresso tecnico permettevano al mercato del lavoro sia di assorbire la nuova manodopera sia di riassorbire la vecchia manodopera resa esuberante, nella società postindustriale questi margini di intervento sono praticamente negati. LA MISTICA QUANTITATIVA DEL LAVORO Non solo, ma il gap tra impiego e occupazione sta generando un paradosso inquietante, quello degli ?impiegati senza lavoro?. Non poche ricerche empiriche di questi ultimi anni hanno portato alla luce il fenomeno dell?overtime, cioè dell?abitudine, consolidata presso i colletti bianchi, di restare in ufficio più del tempo necessario. (Non così con l?operaio che deve uscire a un?ora fissa per motivi contrattuali). In non poche aziende vige tuttora una mistica quantitativa del lavoro, per cui un dipendente è tanto più apprezzato quante più ore serali di straordinario svolge. E i dirigenti devono inventarsi sempre nuove incombenze pur di trattenere i propri dipendenti oltre l?orario contrattato, oppure escogitare astruse combinazioni di orario. Come a dire che l?azienda, in quanto istituzione totale, tende ad assorbire quanto più tempo dai suoi quadri e dipendenti e ciò indipendentemente da ragioni legate all?attività produttiva. Di qui il triste circolo vizioso: quante più ore si resta in azienda, tanto più si diventa estranei alla famiglia e alla vita di relazione; d?altro canto, quanto più si diventa estranei alla famiglia e agli amici, tanto più ci si sente a proprio agio dentro l?azienda. E infatti le aziende tendono, disperatamente, a internalizzare i luoghi della socializzazione, realizzando ritrovi, bar, piscine, campi da gioco e così via. Vale a dire, si preferisce fingere che ci sia lavoro sufficiente a far lavorare tutta la giornata i propri dipendenti piuttosto che riorganizzarsi e lasciare che costoro occupino il tempo non necessario a generare valore aggiunto nella vita di famiglia ovvero nello svolgimento di altre attività lavorative. Si deve allora concludere che il lavoro manca laddove pochi realmente lavorano. Quanto a dire che il lavoro vero non toglie lavoro, ma crea altro lavoro e quindi che lo slogan corretto non è ?lavorare meno, lavorare tutti?, ma ?lavorare davvero, lavorare tutti?. UNA BUONA PROPOSTA SUL TAVOLO Perché ci si ostina a pensare che la piena occupazione debba coincidere con il pieno impiego e quindi a pensare che per dare lavoro a tutti occorra agire solo sul lato della ?crescita? e non anche sul graduale spostamento della spesa dei cittadini verso i beni relazionali, i beni di merito, i beni sociali? Perché mai per distribuire un impiego a tutti si deve realizzare un modello di vita neoconsumista (basato sull?aumento del consumo forzato di beni di cui si farebbe volentieri a meno qualora ci fosse la possibilità di vera scelta), oppure si devono legittimare nuove forme di povertà (dovute all?introduzione di forme precarie di lavoro oppure al lavoro nero), oppure si devono restringere gli spazi di libertà dei corpi intermedi della società civile (perché non vi sono soggetti di offerta in grado di soddisfare una domanda pagante di beni diversi da quelli che vengono prodotti)? Il limite serio di tutte le proposte, anche ingegnose, volte ad alleviare la piaga della disoccupazione è quello di generare pericolosi trade-offs, come quelli appena accennati. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo etico, e socialmente non sostenibile. La proposta dell?economia civile è allora quella di favorire, con politiche adeguate, il trasferimento del lavoro liberato dal settore privato e pubblico dell?economia al settore civile dell?economia. Come sappiamo, il prodotto dell?economia civile è connotato da una duplice caratteristica. La prima è che la categoria di beni che il settore civile dell?economia tende a produrre, e per la quale esso possiede un ben definito vantaggio comparato, è la categoria dei beni relazionali (servizi alle persone; beni meritori; alcuni tipi di beni pubblici), beni cioè che possono essere prodotti e fruiti in modo ottimale soltanto assieme da coloro i quali ne sono, appunto, gli stessi produttori e consumatori tramite le relazioni che connettono i soggetti coinvolti. La seconda caratteristica è che il lavoro che si svolge all?interno delle varie organizzazioni che compongono il variegato mondo dell?economia civile, presenta proprietà diverse da quelle del lavoro dipendente salariato. Oggi tutti parlano di qualità della vita. Ma la domanda di qualità va ben al di là di una mera domanda di beni manifatturieri (o agricoli) ?ben fatti?. è piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione , in buona sostanza di relazionalità. In altri termini, la qualità cui si fa riferimento non è tanto quella dei prodotti (beni e servizi) oggetto di consumo, quanto piuttosto la qualità delle relazioni umane. Ne deriva che tutto ciò che a livello legislativo, amministrativo, finanziario consente e favorisce la nascita di soggetti di offerta il cui vantaggio comparato è nella produzione di beni relazionali va nella direzione di un allargamento degli spazi di libertà del cittadino. In questo preciso senso, una strategia come quella qui suggerita tendente a risolvere il problema della disoccupazione si rivela una strategia autenticamente liberale, (da non confondersi con una strategia liberista), dal momento che essa lascia ai soggetti della società civile la determinazione delle tipologie di beni e servizi che si vuole vengano prodotti e distribuiti secondo la regola del profitto e quali invece secondo la regola del principio di reciprocità. Ma cosa deve prodursi sul piano istituzionale perché la sfera dell?economia civile possa dilatarsi per essere in grado di assorbire il lavoro liberato dalla sfera dell?economia for profit? La risposta è che occorre andare oltre il modello neocorporativo di ordine sociale, secondo cui gli attori collettivi non agiscono autonomamente dallo Stato, ma per il suo tramite oppure con il suo permesso. è l?autorità di governo (centrale o regionale che sia) a condurre verso un equilibrio sociale i portatori dei vari interessi rappresentati nella società. Già sappiamo che, nelle condizioni odierne, questo modello, a prescindere dai suoi meriti storici, non è più in grado di funzionare. Di qui allora i due corni del dilemma: i sostenitori della posizione liberal-individualista, vedendo con favore il declino degli attori collettivi, sollecitano l?affidamento agli attori individuali del compito di realizzare la coesione sociale. Tuttavia, se l?orizzonte ha da essere quello di una società che vuole bensì tendere alla piena occupazione, ma non comunque, cioè non rinunciando a realizzare quei valori che gli uomini valutano come buoni, allora quella via non può considerarsi pervia. LA SUSSIDARIETÀ ORIZZONTALE L?altro corno, favorito da chi si riconosce nella posizione liberal-personalista, mette in gioco la società civile, facendo in modo che i soggetti collettivi costituiscano una nuova infrastruttura istituzionale della società postfordista. In un disegno del genere, allo Stato-nazione spetterebbe un duplice, importante ruolo. Da un lato riconoscere (e non concedere!) l?autorganizzazione dei soggetti della società civile in tutti gli ambiti in cui i loro membri ritengono, in piena autonomia, di avere interessi legittimi da tutelare. Ciò corrisponde a quanto esige il principio di sussidiarietà in senso orizzontale. Dall?altro, lo Stato-nazione deve garantire le regole di esercizio di questa autorganizzazione (trasparenza; regole di accesso alle fonti di finanziamento; regimi fiscali), facendo in modo che sia la competizione effettiva tra soggetti diversi di offerta a stabilire il confine tra le varie tipologie d?impresa (privata; pubblica; sociale e civile) e non già interventi dirigistici dall?alto, come appunto si verifica nel modello concessorio. è in ciò il significato ultimo di una autentica democrazia economica, alla quale non basta il pluralismo nelle istituzioni economiche; essa esige piuttosto il pluralismo delle stesse istituzioni economiche. Cosa implica ciò, nel concreto? Lo vedremo nella prossima, e ultima, lezione.


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