Diritti&Salute

Il secondo parere è un diritto e un’opportunità

Sentire il parere di un altro specialista, la cosiddetta "second opinion", fa parte del diritto del paziente di acquisire più informazioni possibili, come parte di un processo decisionale spesso complicato. Il fenomeno evidenzia però anche il tentativo di superare disparità di accesso. Se ne discute alle Giornate dell'etica degli oncologi medici di Aiom

di Nicla Panciera

Lo scenario delle malattie oncologiche è caratterizzato da grande innovazione e cambiamenti. Forse anche per questo, è il settore della medicina può caratterizzato dal fenomeno della ricerca di una “seconda opinione”, termine con il quale si intende tanto la necessità del paziente di sentire il parere di un altro clinico rispetto a quello già ricevuto, quanto il consulto chiesto da uno specialista a un collega più esperto di una certa patologia.

Sulle opportunità e le criticità di questo che viene universalmente riconosciuto come un diritto inalienabile del paziente discuteranno clinici, pazienti, magistrati e giornalisti al convegno nazionale dell’Associazione italiana di oncologia medica Aiom “Le Giornate dell’Etica Aiom 2023. L’etica della Second Opinion: 5 Anni Dopo”, in corso a Loreto (An), dove è stata presentata un’indagine condotta su oltre duecento oncologi dell’associazione sulla diffusione della pratica. «Nel 78% dei casi è lo stesso oncologo che consiglia al proprio paziente di andare da un collega per un consulto. Con la pandemia, abbiamo vissuto l’esperienza di molti pazienti impossibilitati a recarsi nei centri di riferimento dove erano in cura. Si sono diffuse nuove modalità di comunicazione telematica. Come Aiom, abbiamo quindi deciso di occuparci nuovamente delle seconde opinioni, a distanza di cinque anni dal nostro primo decalogo di Ragusa del 2018»  ha spiegato Saverio Cinieri, presidente nazionale Aiom. «I tumori sono in costante crescita in Italia e ogni giorno si registrano più di mille casi. Le scelte terapeutiche sono diventate sempre più complesse grazie alla costante introduzione di nuovi trattamenti. Questo è valido soprattutto per i tumori rari che in totale interessano oltre 900mila uomini e donne nel nostro Paese. La gestione clinica di queste neoplasie, così come quella dei sarcomi, è molto complessa ed è assolutamente necessario il giusto expertise dell’oncologo».


Se l’81% degli oncologi afferma di aver ricevuto da altri colleghi una richiesta di “second opinion”, solo il 75% è stata eseguita con la visita in presenza del malato. Il 21% invece è stata svolta attraverso l’analisi della documentazione clinica e la successiva discussione con parente/caregiver. Solo nel 4% dei casi è avvenuta con il teleconsulto o altre forme di telemedicina. Il 64% delle second opinion è stato erogato attraverso il servizio sanitario nazionale e il rimanente 36% con libera professione. Meno della metà dei pazienti (il 47%) informa il proprio medico curante solo dopo aver ottenuto il secondo parere. Spesso questo accade perché si teme di compromettere il rapporto con il proprio medico. «Il rischio è che il paziente si rivolga al secondo specialista con in mano una documentazione incompleta, magari solo radiologica e ciò non aiuta nella formulazione della nuova opinione» mette in guardia Cinieri, che invita a rivolgersi al medico, che saprà indirizzare al centro più esperto.

«Se da un lato, sentire un secondo parere rassicura il paziente sul percorso da prendere e di stare agendo in modo adeguato alla propria situazione, dall’altro nel caso di discordanza tra specialisti è importante puntare sul dialogo per capire bene il pro e il contro di ciascuna scelta, scongiurando il rischio che il paziente prosegua troppo a lungo nella sua ricerca di altri pareri, ritardando l’inizio delle cure» spiega Giordano Beretta, presidente di Fondazione Aiom, che ribadisce: «Acquisire il maggior numero di informazioni possibili, anche con una seconda opinione, è un diritto, così come lo è poterla avere dal sistema sanitario senza dover pagare di tasca propria. È qualcosa che istituzionalizzerei. La decisione finale sul da farsi spetterà poi al paziente di concerto con il suo medico curante. Ma rivolgersi a un centro di riferimento può voler dire ottenere l’opportunità di essere inseriti in uno studio clinico e quindi accesso a un farmaco sperimentale. Il centro di riferimento faccia realmente rete con le strutture sul territorio». Ciò mette in luce delle criticità, commenta Filippo Pietrantonio, Consigliere Nazionale Aiom: «Riferirsi ai centri di eccellenza come via per avere accesso a indagini avanzate, profilazione molecolare o a certi protocolli di cura evidenzia la disparità di accesso alle terapie e ai farmaci; inoltre, il fatto che nel 60% dei casi le visite avvengano in regime di libera professione evidenzia un rischio di tossicità finanziaria, così come il fatto che spesso gli esami molecolari aggiuntivi non vengono sempre pagati dal nuovo centro prescrittore». Infine, conclude Pietrantonio, «serve un miglioramento nella comunicazione tra gli specialisti coinvolti in queste dinamiche, spesso quando i pareri sono discordanti sono sfumature di decisioni cliniche e non errori macroscopici, ci vuole collaborazione tra centri volta al miglioramento della cura del paziente e ottimizzazione della sua gestione. Le ricadute di una dinamica virtuosa sono anche quelle di scoraggiare la migrazione sanitaria non necessaria, migliorare la comunicazione medico-paziente, senza mai illuderlo». Al termine del congresso, la nuova edizione del decalogo sarà pubblicata online e diffusa a tutti gli oncologi medici.

Photo by National Cancer Institute on Unsplash

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