Giovani e violenza

Un ragazzo non sarà mai violento se impara a dire “sono triste”

«Dietro la violenza del femminicidio c’è sempre un uomo incapace di leggere le proprie emozioni», osserva Stefano Rossi, psicopedagogista da poco in libreria con Lezioni d’amore per un figlio (Feltrinelli). «Un ragazzo che sa dire: “Sono triste”, “Mi sento vulnerabile”, “Ho paura di non essere all’altezza” non sarà un uomo violento»

di Sabina Pignataro

Sono di pochi giorni fa le violenze sessuali di Palermo e Caivano, agitate da un gruppo di adolescenti nei confronti di giovani coetanee. Il tema della violenza di genere, della gelosia patologica e dell’amore che fa male è uno dei temi più caldi di questo periodo. Il ministro dell’Istruzione Valditara sta preparando un progetto che partirà a settembre, andando (parzialmente) a colmare un grande vuoto: in Italia, al contrario di quanto accade in gran parte d’Europa, questa formazione non è una materia obbligatoria. Le iniziative in corso sono parcellizzate e disomogenee rispetto a obiettivi, metodi o contenuti dei programmi. Ne abbiamo parlato con Stefano Rossi, psicopedagogista, da poco in libreria con Lezioni d’amore per un figlio (Feltrinelli).

Rossi, si torna a parlare di progetti educazione affettiva. Come si fanno?

L’aspetto più importante che dobbiamo comprendere è che l’educazione sentimentale non coincide con la sola educazione sessuale. Uno dei mali del nostro tempo è l’analfabetismo emotivo: l’incapacità di riconoscere, comprendere e regolare le proprie emozioni. Dietro la violenza del femminicidio c’è sempre un uomo incapace di leggere le proprie emozioni. Un ragazzo che sa dire: “Sono triste”, “Mi sento vulnerabile”, “Ho paura di non essere all’altezza” non sarà un uomo violento. L’educazione emotiva è l’arte di trasformare i sassi in parole. La violenza al contrario è sempre una sassaiola. Sto male, ma non dare un nome a ciò che provo. Un percorso da fare anche nelle scuole attingendo alla capacità integrativa (cervello che pensare e cervello che pensa) delle metafore.

Dietro la violenza del femminicidio c’è sempre un uomo incapace di leggere le proprie emozioni. Un ragazzo che sa dire: “Sono triste”, “Mi sento vulnerabile”, “Ho paura di non essere all’altezza” non sarà un uomo violento

Stefano Rossi

Lei suggerisce di parlarne con ragazzi e ragazze ma come si fa ad essere ascoltati da un preadolescente o un adolescente?

Nel mio libro “Lezioni d’amore per un figlio” propongo a genitori, insegnanti ed educatori uno strumento antico: il potere delle metafore, ovvero storie ed immagini. L’adolescente, per natura, non ama le prediche e i monologhi dell’adulto. Quando nei miei incontri in teatro con i ragazzi veicolo delle lezioni d’amore tramite il canale delle storie, l’ascolto è estremamente profondo. Le storie ci incantano perché fanno cantare all’unisono la parte razionale del cervello (che desidera capire), con la parte emozionale (che ha bisogno di sentirsi coinvolta). La parte più importante delle storie però è ciò che custodiscono: le metafore. Se la storia è l’ostrica, la metafora è quella perla luminosa che offre a ragazzi e ragazze, la possibilità di guardare al mondo e a se stessi con occhi nuovi. La cultura della mascolinità tossica proposta in molte canzoni che parlano ai più giovani in fondo non è altro che una “storia”, che spiega cosa significa essere maschi e femmine. Per disinnescare questa ed altre narrazioni abbiamo bisogno di contro-narrazioni che ci consentano, non di “pensare sui ragazzi”, ma riscoprire la gioia di “pensare con loro”.


Da una ricerca di Save The Children su oltre 1.200 adolescenti e giovani (14-22 anni) emerge che controllo e gelosia vengono ritenuti elementi accettabili all’interno di una relazione di coppia, soprattutto per i maschi. Cosa ne pensa?

È un dato a mio parere preoccupante. La cultura della mascolinità tossica, non inquina solo il modo di pensare dei ragazzi, ma anche quello delle ragazze che, in questi casi, finiscono per “giustificare l’ingiustificabile”. Per questo dobbiamo aiutarli a distinguere la gelosia-custode dalla gelosia-killer. La prima offre al rapporto la possibilità riflettere. La seconda è anti-dialogica. È un buco nero di violenza e paranoia. La “Lezione d’amore” più importante in fondo è la lezione sull’amore: l’amore è il contrario delle catene. È la tua libertà che danza con la mia.

Ci fa un esempio concreto per pensare coi ragazzi il tema della gelosia?

Nel libro parto dalla storia tragica di Alberto Pastore e Yoan Leonardi. Due amici cresciuti insieme ma divisi dall’amore per una ragazza. Alberto, in preda ad una gelosia paranoide, prima accusa l’amico e infine lo uccide. Dopo l’atto e prima di essere arrestato consegna ai social questo pensiero: “È tutta colpa di Yoan.” Una storia tragica che non dobbiamo aver paura di raccontare. Una storia che ci permette di introdurre la “Lezione d’amore” (in chiave di metafora) su cui riflettere con ragazzi e ragazze. Ci sono due tipi di “gelosie”: la gelosia-custode e la gelosia-killer. La gelosia-custode è un piccolo campanello d’allarme che bussa al nostro cuore. Il suo scopo non è difendere una proprietà, ma di custodire la poesia del legame. È una gelosia socratica, perché non pensare di “sapere tutto”, ma ci spinge con delicatezza a bussare al cuore dell’altro. La gelosia-killer che purtroppo ritrovano nell’uccisione di Alberto Pastore è sganciata dalla realtà. È un buco nero (ecco la metafora) che inghiotte tutto: il rispetto dell’altro, la fiducia verso il proprio partner, la razionalità del soggetto geloso. I germi di questa gelosia patologica emergono durante l’adolescenza. Dobbiamo insegnare alle nostre figlie e ai nostri figli a riconoscere questo buco nero che, senza l’aiuto di un terapeuta, non è curabile. Un buco nero da cui allontanarsi per proteggere la nostra luce.

Nel suo libro propone 20 lezioni d’amore. Quale ritiene la più importante per i ragazzi e le ragazze di oggi?

 I ragazzi di oggi portano sulla loro pelle le cicatrici di quella che, senza esagerare, possiamo definire come la società della prestazione dove il comandamento è essere belli, magri, vincenti e perfetti. Mentre l’adolescente di eri doveva confrontarsi col peso del senso di colpa, l’adolescente della prestazione di oggi è inseguito dalla lama del senso di inadeguatezza che, nei casi più severi, confluisce in disordini del comportamento alimentare, attacchi di panico, autolesionismo senza dimenticare il ritiro sociale e i pensieri suicidali. Nella società della prestazione la cosa più difficile è volersi bene, trattando se stessi con l’empatia e il rispetto di cui tanto si parla. Spiegate a figli e studenti che in molti casi il bullo peggiore è quello dentro di noi. È quella voce che ci paragona costantemente agli altri dicendoci cose terribili: che siamo brutti, che non valiamo niente, che nessuno potrà mai sceglierci o amarli. La metafora del bullo interiore va trasformata coll’imparare a diventare buoni amici di noi stessi. Il segreto di questa metafora è spiegare a ragazzi e ragazze che loro non sono la voce del bullo. Loro sono colui e colei che può (ri)pensare quella voce.

Nella società della prestazione la cosa più difficile è volersi bene, trattando se stessi con l’empatia e il rispetto di cui tanto si parla. Spiegate a figli e studenti che in molti casi il bullo peggiore è quello dentro di noi

Stefano Rossi

Foto di apertura: Stefano Rossi

Per approfondire

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.