Famiglia

La partita umanitaria

Negli Usa Bush ha approntato una macchina per i soccorsi colossale. Per poi lasciare campo libero all’Onu, come chiesto da Blair. Ma le Nazioni Unite sono in rosso.

di Carlotta Jesi

Chi si occuperà dei 2 milioni di profughi iracheni che, secondo l?Onu, sono la prima conseguenza certa della guerra contro Saddam Hussein? L?unico a non avere dubbi, per il momento, è George Bush: ha creato un Disaster Assistance Response Team (Dart) di 60 esperti, il più numeroso della storia americana, che entrerà in Iraq dal Kuwait dietro alle truppe a stelle e strisce per stabilire quali siano le operazioni umanitarie più urgenti nelle aree liberate da Saddam Hussein. Questa, purtroppo, è l?unica cosa di cui può stare certo il 60% degli iracheni che, già prima della guerra, mangiava solo grazie al programma Oil for food (Petrolio in cambio di cibo) delle Nazioni Unite. Ong in lista d?attesa “Se riusciremo a ottenere il permesso di entrare in Iraq”, hanno dichiarato alla stampa internazionale i portavoce delle circa 40 ong che aspettano di entrare in azione ad Amman. Permesso che, per una strana ironia della sorte, si ottiene a centinaia di chilometri di distanza. In Kuwait: quartier generale delle truppe anglo-americane e anche dell?Humanitarian Operation Centre (Hoc) creato dal governo locale e dagli Stati Uniti per coordinare i lavori di ricostruzione. Centro che ci si aspetterebbe assediato da funzionari Onu e da cooperanti, che invece non si vedono, denunciava già a metà marzo l?ong Refugees International: “In Kuwait ci sono 150mila soldati, oltre mille giornalisti e sì e no 30 rappresentati di ong”. Probabilmente in attesa di sapere se a coordinare le operazioni umanitarie in Iraq saranno le Nazioni Unite o Bush. Il 18 febbraio, Michael Marx, numero uno del Disaster Assistance Response Team dichiarava al Financial Times che “la ricostruzione, come in Afghanistan, sarà affidata all?Onu”. Ci sperano in molti, a cominciare da Clare Short: la responsabile degli aiuti umanitari per il governo inglese, a differenza di altri ministri, ha deciso di rimanere in organico perché “Tony Blair ha persuaso il presidente Bush che dovrà esserci una risoluzione per dare alle Nazioni Unite il mandato di ricostruire l?Iraq”. L?unica cosa certa, però, è che il 17 marzo, mentre il presidente americano lanciava il suo ultimatum a Saddam Hussein, l?Onu dichiarava di non avere abbastanza fondi per aiutare i civili iracheni. L?Onu ha i conti in rosso È in rosso l?Acnur che ha ricevuto 21 milioni di dollari sui 60 richiesti e dichiara di poter assistere solo 180mila dei 600mila profughi che stima cercheranno rifugio fuori dall?Iraq. È in rosso il Pam che aveva chiesto 23 milioni di dollari per assicurare cibo ad almeno 900mila persone per 10 giorni e ne ha ricevuti 7,5. Sufficienti solo per sfamare 500mila persone. È in rosso perfino Unocha, l?ufficio Onu per il coordinamento dell?assistenza umanitaria che ha ottenuto solo 18 dei 75 milioni di dollari richiesti alla comunità internazionale. Risultato: per il momento gli uomini di Kofi Annan costruiscono magazzini di aiuti umanitari e campi profughi lungo i confini iracheni. Tace l?Ufficio umanitario della Commissione Europea (Echo) che non può iniziare a spendere denaro prima che siano riportate vittime civili. Ma da Bruxelles assicurano che sono pronti a impiegare 3 milioni di dollari per aiuti di emergenza entro 72 ore dallo scoppio delle ostilità e altrettanti per aiutare i profughi. L?Onu stima che, tra quelli che scapperanno all?interno del Paese e nei Paesi confinanti, saranno circa 2 milioni. E ad assisterli si sta preparando anche una rete di ong curde. Possibile? Sì, assicura il quotidiano americano Christian Science Monitor: finanziate dal governo inglese, un gruppo di non profit curde coordinate dall?ong Reach stanno insegnando ai capi di 89 villaggi confinanti col territorio controllato da Bagdad a curare ferite, anche di armi chimiche, e ad accogliere civili e militari in fuga. E l?Italia? Divisi I venti di guerra iracheni hanno diviso in due il fronte delle ong italiane, cosa che accade in realtà anche nel resto d?Europa. Da una parte, chi ha deciso di dire comunque no agli aiuti statali: uno schieramento largo che vanta ad oggi 31 aderenti, un coordinamento che rivendica “assoluta autonomia dell?intervento delle organizzazioni non governative che devono essere in grado di poter individuare gli obiettivi e le emergenze umanitarie senza alcun tipo di pressione politica o militare”, come testimonia Fabio Alberti, portavoce del cartello e presidente di Un ponte per. Come sostenere i progetti di intervento che il Tavolo ha già messo in cantiere? La risposta è in due numeri: il conto corrente postale 507020 e il conto corrente bancario di Banca Etica 108080 (Abi: 05018, Cab: 03200) a disposizione dei privati che vogliono sostenere l?iniziativa. Passando il guado della cooperazione nostrana incontriamo Arturo Alberti, presidente di Avsi, che proprio non se la sente di sedersi al Tavolo apparecchiato dal suo omonimo di Un ponte per. “Niente da obiettare quanto alla raccolta fondi. E sono totalmente d?accordo a dire no all?ipotesi che lo Stato metta in piedi una seconda Missione Arcobaleno finanziata dai privati”, spiega.”Ma non ha senso precludersi i finanziamenti statali solo per ideologia!”. L?associazione cattolica, che vanta numerosi progetti di cooperazione in Libano, Palestina, Giordania e Siria e fino al 1996 era impegnata anche in Iraq, si dice perfino disposta ad intervenire sul territorio di guerra anche se il coordinamento dell?azione fosse affidato all?esercito americano e non alle Nazioni Unite. “Il punto”, aggiunge Alberti, “è che noi guardiamo i problemi dalla finestra di chi si aspetta il nostro aiuto. L?importante sarà stare laggiù e sporcarsi le mani, in qualsiasi condizione”.


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