Cultura

La stagione della rinascita

Speciale: lezioni di economia civile. Ottava puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione
Siamo arrivati al punto cruciale, quello che riguarda il destino dell?economia civile nei nostri giorni. C?è una scuola di pensiero secondo la quale il Terzo settore copre i cattivi funzionamenti dell?economia capitalistica o di quella di Stato. È una scuola che vede nell?individualismo un dogma di tutti i processi sociali. È davvero così? O invece il non profit rappresenta il modello vincente, che quindi non tappa i buchi degli altri ma propone alternative più valorizzanti e convenienti? Proviamo a rispondere
Ottava puntata. Il non profit non sarà un tappabuchi
Nella lezione precedente abbiamo considerato alcuni degli effetti indesiderati associati all?eclissi della prospettiva dell?economia civile. Uno di questi è stato proprio il confinamento nel limbo del non profit di tutte quelle organizzazioni della società civile il cui modus agendi è basato sul principio di reciprocità. Questa sistemazione teorica lascia tutti (o quasi) insoddisfatti. Non solo perché da essa discende che il Terzo settore può tuttalpiù aspirare a un ruolo residuale e di nicchia, ma anche perché tale ruolo sarebbe comunque transitorio. Come ha recentemente affermato Hansmann, uno dei guru americani del non profit, quelle non profit sono ?transitional organizations? (organizzazioni transitorie) destinate, col tempo, a scomparire oppure a convergere sulla forma di impresa capitalistica. Su cosa poggia una ?certezza? del genere? Sulla acritica accettazione del presupposto secondo cui la forma naturale di fare impresa è quella capitalistica e dunque che ogni altra forma di impresa deve la propria ragion d?essere o a un ?fallimento del mercato? oppure a un ?fallimento dello Stato?. Quanto a dire che se si potessero rimuovere le cause generatrici di quei fallimenti (le asimmetrie informative; l?incompletezza dei contratti; i mal funzionamenti delle pubbliche amministrazioni) si potrebbe tranquillamente fare a meno del Terzo settore, come già più di un osservatore e studioso va dicendo. In definitiva, una volta supinamente accolto il principio della naturalità dell?individualismo, e in particolare dell??homo oeconomicus?, si ha che l?unico banco di prova per l?organizzazione non profit è quello dell?efficienza: solamente se essa dimostra di essere più efficiente dell?impresa privata e/o dell?impresa pubblica ha titolo per continuare a operare e quindi a essere rispettata. Ma dove conduce un modo di ragionare del genere? A far diventare l?efficienza il principio universale da porre a fondamento dell?ordine sociale. Ora, a prescindere dal fatto che il principio di efficienza presenta il grave inconveniente di lasciare troppo spesso fuori dai propri calcoli qualcosa di rilevante (si pensi a quanto accadeva, fino a tempi recenti, con i costi ambientali sistematicamente dimenticati) il suo limite principale è di natura propriamente culturale. Infatti, l?involuzione registrata dal discorso economico a seguito dell?abbandono delle virtù civili ha contribuito, in modo determinante, a far credere che fine e risultato di un?azione siano, fondamentalmente, la stessa cosa. LE TRE RICETTE DEL WELFARE Per quali ragioni, in anni recenti, questa concettualizzazione del non profit e del Terzo settore ha cominciato a entrare in crisi? Ne indichiamo due, quelle che ci paiono più rilevanti. La prima ha a che vedere con la crisi del modello tradizionale di welfare state, una crisi che ha definitivamente aperto la strada alla cosiddetta welfare society. La necessità e l?urgenza della transizione dal welfare state alla welfare society sono qualcosa di ormai culturalmente acquisito anche nella società italiana. Va dunque riconosciuto che la battaglia condotta affinché nel titolo V della nostra Costituzione venisse esplicitamente inserito il principio di sussidiarietà in senso orizzontale ha prodotto e va producendo i frutti sperati. La sfida che ora va raccolta però è come dare concreta realizzazione alla welfare society. Tre, fondamentalmente, sono i modelli oggetto di discussione e di confronto in sede sia teorica che politica. Il primo è il modello del ?compassionate conservatorism? (il conservatorismo compassionevole), come viene chiamato nella letteratura anglosassone, secondo cui l?attenzione ai bisogni e alle necessità di chi resta indietro nella gara di mercato è affidata, in primis, alla filantropia e all?azione volontaria e, in secundis, allo Stato che interviene sulla base di schemi marcatamente selettivistici. Il secondo modello è quello neostatalista: lo Stato deve conservare il monopolio della committenza pur rinunciando, in tutto o in parte, al monopolio della gestione dei servizi di welfare. è in ciò il fondamento del cosiddetto welfare-mix: nella effettiva erogazione dei servizi, lo Stato – o meglio, l?ente pubblico – deve avvalersi della collaborazione e del concorso dei soggetti del Terzo settore, ma questi devono intervenire ex post, cioè nella fase della implementazione delle decisioni prese a livello politico. Infine, v?è il modello civile di welfare, come a noi piace chiamarlo, secondo cui alle organizzazioni della società civile va riconosciuta una soggettività non solo giuridica, ma anche economica. Ebbene, se si vuole arrivare a un welfare plurale, e non accontentarsi del solo welfare mix, è necessario che le organizzazioni non profit possano godere di autonomia e indipendenza, soprattutto economica. IL PASSAGGIO CULTURALE DECISIVO Concretamente, questo significa che il welfare civile deve riconoscere ai soggetti della società civile quella capacità, vale a dire quell?empowerment che consente loro di diventare partners attivi nel processo di programmazione degli interventi e nella adozione delle conseguenti scelte strategiche. In altri termini, non basta riconoscere al portatore di bisogni il diritto all?esercizio della voce. Il passaggio culturale da favorire è allora quello dalla libertà come potere di autodeterminazione (secondo cui la libertà di scelta è valutata per ciò che essa ci consente di fare o di ottenere) a quello della libertà come potere di autorealizzazione, come potere cioè di scegliere non solo il mezzo per un dato fine, ma anche il fine stesso. E questo perché mentre la negazione della libertà come autodeterminazione ci sottrae utilità, la negazione della libertà come autorealizzazione ci toglie dignità; il che è certamente più grave. La seconda ragione dell?odierna ripresa di interesse al discorso dell?economia civile è quella che concerne la questione, piuttosto seria, della disoccupazione che, come sappiamo da recenti studi empirici sulla felicità, è forse la causa maggiore di infelicità delle persone. Pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia del mondo occidentale, il problema occupazionale ha assunto oggi forme e caratteri che non sono ascrivibili a quelli precedenti. La dimensione quantitativa del problema, così come la sua persistenza nel tempo, fanno piuttosto pensare a cause di natura strutturale, legate alle caratteristiche dell?attuale passaggio d?epoca, quello dalla società fordista alla società post fordista. Cinquant?anni fa, J.M. Keynes giudicava la disoccupazione di massa in una società ricca una vergognosa assurdità. Oggi, le nostre economie sono tre volte più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione di considerare la disoccupazione attuale tre volte più assurda e pericolosa perché in una società tre volte più ricca, l?ineguaglianza e l?esclusione sociale che la disoccupazione provoca sono almeno tre volte più disgreganti. Quel che è peggio, è che la disoccupazione pare sia diventata lo strumento per la prosperità economica: chi licenzia non è tanto l?impresa in crisi, ma quella in salute che vuole dilatare il proprio margine di competitività. È proprio questo che fa problema: la disoccupazione non più come sintomo o effetto di una situazione di crisi, ma come strategia per competere con successo nell?epoca della globalizzazione. Ebbene, è ormai diffuso il convincimento che un ordine sociale che supinamente incorporasse tra i suoi meccanismi di funzionamento un tale uso strategico della disoccupazione non sarebbe moralmente accettabile, né, si può aggiungere, economicamente sostenibile. Dobbiamo allora chiederci se invece di affrontare la questione a spizzico, allineando suggerimenti e misure disparate, tutti in sé validi ma ben al di sotto delle necessità, non sia indispensabile riflettere sulle caratteristiche di fondo dell?attuale modello di crescita per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte. La nostra tesi è che la disoccupazione di oggi è la conseguenza di una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane a disposizione. è un fatto che le nuove tecnologie della terza Rivoluzione industriale liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l?attuale assetto istituzionale delle nostre società trasforma in disoccupazione. In altro modo, l?aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo (un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi) continua a essere utilizzato per la produzione di merci (o di servizi alla produzione delle merci) di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo ?costretti? a consumare, mentre non vengono prodotti beni e servizi che vorremmo consumare negli ammontari desiderati. Il risultato di questo stato di cose è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su tentativi sempre più illusori di creare nuove occasioni di lavoro effimere o precarie anziché impiegati per riprogettare la vita di una società post industriale fortunatamente capace di lasciare alle ?nuove macchine? le mansioni ripetitive e quindi potenzialmente capace di utilizzare il tempo così liberato per impieghi che allarghino gli spazi di libertà dei cittadini. Eppure, ancora diffusa (e creduta) tra gli esperti è l?idea che si possa intervenire con successo sulla disoccupazione operando sui rimedi tradizionali, quelli cioè che sono stati applicati in tempi più o meno recenti per far fronte alle tre grandi categorie di disoccupazione: quella associata all?alto costo del lavoro; quella da carenza di domanda effettiva; quella tecnologica. LA DISOCCUPAZIONE,COME USCIRNE? Non v?è alcun dubbio che nella situazione odierna tutti e tre i tipi di disoccupazione sono presenti e dunque che una riforma dei metodi di finanziamento dell?assistenza sociale e/o una riforma dei sistemi di tassazione che riducesse il carico fiscale del lavoro dipendente contribuirebbe a ridurre la prima tipologia di disoccupati. è del pari vero che una politica di rilancio degli investimenti pubblici varrebbe a ridurre la disoccupazione keynesiana. Così come intervenendo con le cosiddette politiche attive del lavoro (le varie forme di flessibilità) si andrebbe a intaccare la disoccupazione tecnologica. Ma tutto ciò, posto che fosse fattibile, non sarebbe comunque sufficiente per giungere a una società della piena occupazione. è a questo punto che entra in scena la proposta dell?economia civile. Alla prossima lezione il compito di precisarne i modi.


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