Vito Mancuso

L’intelligenza artificiale non è il rimedio alla «stupidità naturale»

di Veronica Rossi

Vito Mancuso in primo piano con una camicia azzurra e le braccia incrociate
Il teologo, ospite il 22 settembre al Festival del Pensare contemporaneo di Piacenza, avverte sui rischi della tecnologia, che potrebbe privarci della nostra parte più creativa e filosofica

Dell’intelligenza artificiale – Ai ci può essere «un uso che riduce la stupidità naturale, un altro che la incrementa». È questo il pensiero di Vito Mancuso, famoso teologo, filosofo e accademico, che parteciperà al Festival del Pensare contemporaneo, kermesse promossa da Fondazione CariPiacenza e Vigevano col Comune di Piacenza e curata da Alessandro Fusacchia in programma a Piacenza dal 21 al 24 settembre. L’incontro che lo vedrà protagonista insieme a Diletta Huyskes, ricercatrice e responsabile advocacy di Privacy network, si terrà venerdì 22 e avrà al centro l’etica nel campo dell’Ai.

Professore, lei sostiene che «L’intelligenza artificiale non è il contrario della stupidità naturale». Ci può spiegare questa affermazione?

Io manifesto una sostanziale preoccupazione di fronte all’immensa portata che la tecnologia ha ormai su di noi: quando l’intelligenza artificiale sarà pervasiva si potrà determinare una grande crisi dell’homo sapiens.

In che senso?

Il fine della tecnologia è l’efficienza: riconoscere un problema e risolverlo. Un’umanità che prenda a costruirsi su quel modello sarà sempre di più un’umanità senza dubbi, abituata ad avere immediatamente la risposta, a pensare in maniera strumentale, senza sollevare dei dubbi. Il pericolo che vedo – anche se spero di sbagliarmi – è la trasformazione dell’essere umano in una macchina efficiente. Non sono contrario per principio al progresso e allo sviluppo scientifico, non sono così cieco e ideologicamente prevenuto da non vedere tutti i benefici che possono derivare dall’intelligenza artificiale.

Per esempio?

I trasporti: se ci fosse stato un sistema che impiegava l’intelligenza artificiale, probabilmente non avremmo avuto la strage di Brandizzo di qualche giorno fa (quando un treno ha travolto e investito cinque operai al lavoro sui binari, ndr). Penso anche alle operazioni, nel senso chirurgico del termine: è probabile che i robot chirurghi siano più attenti, meno stanchi di quelli umani. Quindi non chiudo gli occhi di fronte agli enormi vantaggi della tecnologia; non posso, tuttavia, fare a meno di sollevare questo grido di allarme di fronte alla pervasività che uno strumento che dà subito tutte le risposte può costituire per l’umanità. Il progresso dell’essere umano non è fatto solo di affermazioni, ma anche di dubbi, interrogativi e critiche. Quando c’è una macchina che sa tutto, rispetto alla quale si può solo consultare e obbedire il rischio è di diventare a nostra volta esecutori tecnici e niente più.

Il progresso dell’essere umano non è fatto solo di affermazioni, ma anche di dubbi, interrogativi e critiche. Quando c’è una macchina che sa tutto, rispetto alla quale si può solo consultare e obbedire il rischio è di diventare a nostra volta esecutori tecnici e niente più.

Rischiano quindi di venire a mancare quelle domande esistenziali e filosofiche che ci caratterizzano come specie?

Penso possano rischiare di essere considerate inutili, come tutto ciò che non è efficienza, che non è pensiero teso a risolvere un problema. Le domande senza risposta, tuttavia, da sempre costituiscono il plafond della filosofia e della religiosità. Tutto questo potrebbe scomparire e con lei anche la dimensione artistica e creativa. Potrebbe venir meno l’umanesimo, in sostanza.

Che cosa si può fare per evitare questo pericolo?

Anzitutto dire che c’è questo rischio, sottolineandolo in tutti i modi possibili. Noi tutti usiamo il navigatore, che è molto utile, si trova subito la strada; in questo modo, però, si perde il senso dell’orientamento, che prima si sviluppava, anche mettendosi in dialogo con gli altri. Questo navigatore, oggi, attraverso l’inteligenza artificiale, non è solo ciò che ci guida facendoci trovare la strada, ma anche ciò che ci fa trovare il vestito, le scarpe, un fidanzato, una fidanzata, i libri, un partito politico o una qualunque altra cosa. È esattamente questo il rischio: essere navigati in tutto. Sappiamo che non esiste nulla di neutro e che ci sono persone che creano e programmano queste tecnologie; il pericolo è la perdita della criticità, l’essere appiattiti tutti su un pensiero unico. Come fare quindi per contrastare questa minaccia? Il primo punto è essere consapevoli dei rischi e dei benefici della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Stiamo parlando di macchine che potremmo definire, in qualche modo «pensanti», che giungono a elaborare scritti, a comporre musica e a parlare la nostra stessa lingua. Dobbiamo essere consapevoli della dialettica del servo-padrone di cui parlava Hegel nella Fenomenologia dello spirito: quando il padrone dipende in tutto dal servo, il servo diventa il padrone. Nel nostro caso, i padroni saranno i pochissimi che conoscono e governano l’intelligenza artificiale e la posono indirizzare. La tecnologia, poi, secondo me non dovrebbe entrare a scuola, anche se è esattamente il contrario di quello che si sta facendo ora. C’è tutto il mondo esterno che rende i nostri bambini e i nostri ragazzi appassionati della tastiera; in classe dovremmo bandire tutto questo e tornare alla matita, alla carta e alla penna, allo scrivere e disegnare a mano libera, alla creatività e alla declamazione di poesia. La scuola dovrebbe ricollegarsi al mondo della tradizione. Non sono contro la modernità, ma la modernità non può prendersi tutto.

La scuola dovrebbe ricollegarsi al mondo della tradizione. Non sono contro la modernità, ma la modernità non può prendersi tutto.

Qualcuno potrebbe obiettare che la scuola dovrebbe avere il compito di preparare al mondo esterno, senza negarlo. Non sarebbe meglio insegnare l’uso corretto della tecnologia piuttosto che abolirla?

Naturalmente, ma dipende dal grado della scuola. Quando parlo di abolire la tecnologia mi riferisco alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria. Poi ovviamente, alle scuole secondarie, quando devi studiare, per esempio, la cellula, è meglio vederla sulla lavagna elettronica che sentire semplicemente la spiegazione dell’insegnante. Da piccolissimi, tuttavia, si forma la mente, il desiderio di studiare; sono convinto che, a quest’età, meno tecnologia e più umanità arriva, meglio è.

In copertina, Vito Mancuso, Foto Festival Pensare contemporaneo/Ufficio stampa


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