Governo
Decreto Caivano, la repressione da sola diventa propaganda
«Quando le risposte sono solo repressive, a volte addirittura vendicative, non funzionano», spiega Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità e socio della cooperativa Dedalus di Napoli. «Anche il Terzo settore deve smettere di "fare lo straordinario" e pretendere che lo straordinario diventi l'ordinario della politica»
di Anna Spena
I fatti di Palermo e quelli di Caivano. Due fotografie della cronaca recente terribili. Qui si intrecciano violenza e violenza di genere, povertà, quartieri difficili, periferie dimenticate. O ancora l’omicidio a Napoli di Giovanbattista Cutolo, morto per mano di un diciassettenne per un motorino da spostare, ucciso con tre colpi di pistola. Questi fatti sono punte di iceberg: cosa c’è sotto? Cosa non vediamo? Anzi, cosa facciamo finta di non vedere? Il Consiglio dei ministri ha varato un decreto “con misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”, informalmente chiamato “Decreto Caivano”.
Il decreto
Tra i punti l’avviso orale, cioè una convocazione da parte del questore del minore che avrebbe commesso un reato, sarà più facile finire in carcere per i minori che si rendono responsabili di reati, viene introdotto il divieto di usare cellulari e internet per i minori violenti ed è previsto il carcere per i genitori che non mandano i figli alla scuola dell’obbligo. «Quello che è successo nelle ultime settimane», spiega Andrea Morniroli, socio fondatore della cooperativa sociale Dedalus, «è il frutto di una molteplicità di fattori, primi tra tutti l’aumento dei disagi e l’aumento dell’uso della violenza. Credo che questi fattori siano determinati dal progressivo annullamento di interventi e servizi sui territori: le persone vengono lasciate sempre più sole. E chi raggiunge le aree più povere se i servizi non ci sono? Da un lato c’è stato un aumento forte delle povertà, delle crisi, della mancanza di aspettative di milioni di persone nella possibilità di avere un futuro differente. Dall’altra parte lo smantellamento dei servizi. Quando c’è questo mix la violenza esplode: sopraffazione, rancore che diventa rivendicazione identitaria della componente più fragile, fragilità che spesso si scaricano sui nemici opportuni. Ecco io in questo momento non vedo elementi normativi che possono rispondere a queste complessità, complessità che sono il tema vero».
Da un lato c’è stato un aumento forte delle povertà, della mancanza di aspettative verso un futuro differente. Dall’altra parte lo smantellamento dei servizi. Quando c’è questo mix la violenza esplode
Andrea Morniroli
Il Decreto Caivano mette al centro l’aspetto della repressione: «Ma quando le risposte sono solo repressive – a volte addirittura vendicative – non funzionano», spiega Morniroli. «Io ho un profondo rispetto per la mamma di Giovanbattista Cutolo, che chiede l’ergastolo per il ragazzo che le ha ammazzato il figlio per un motorino da spostare. E lo dico con molta onestà, io per primo da genitore chiederei l’ergastolo. Ma lo Stato non può reagire con emotività, la sola punizione non può diventare politica dello Stato. Lo Stato deve invece essere capace di farsi carico della complessità che viviamo. Quindi sì, le forme repressive devono essere potenziate ma dall’altra parte ci vogliono interventi strutturali: bisogna dare risposte concrete a questioni complesse».
Lo Stato non può reagire con emotività, la sola punizione non può diventare politica dello Stato. Lo Stato deve essere capace di farsi carico della complessità che viviamo. Sì, le forme repressive devono essere potenziate ma dall’altra parte ci vogliono interventi strutturali
Andrea Morniroli
Risposte concrete ad interventi complessi significa «investire, ma farlo seriamente, nella scuola», spiega Morniroli. «E non bastano i progettini di sei mesi o di un anno. Abbiamo bisogni di programmazioni almeno triennali e di risorse, soprattutto in tutte le aree fragili del nostro Paese. Scuole, amministrazioni locali, privato sociale devono sedersi allo stesso tavolo e capire come spendere al meglio quelle risorse».
L’attenzione al territorio per Morniroli è fondamentale: «Dobbiamo investire nei nei servizi di prossimità territoriali. Non è possibile che ancora oggi il nostro welfare sia così fragile, debole, disuguale a seconda di quale parte del Paese ci troviamo, e per giunta tutto rintanato dentro servizi che – quando ci sono – le persone non sanno come raggiungere».
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Se la violenza diventa l’unica forma di relazione
«Non è solo una questione di interventi punitivi che vanno rafforzati, reprimere certi atteggiamenti violenti va bene», spiega Morniroli. «Ma dobbiamo capire che non basta. Ricordiamoci che in questo Paese c’è una Costituzione che contempla sia la punizione che la rieducazione, e se questo vale per gli adulti figuriamoci per i minori. Io comunque sono fortemente contrario a considerare un quattordicenne alla stregua di un adulto. Ci sono esempi di altri Paesi dove questo accade, esempi che ci dimostrano che non serve a niente. Abbiamo bisogni di molto di più, molto di più».
E “molto di più” significa norme che sappiamo agganciare i ragazzi, che sappiamo proporre alternative a un certo tipo di vita, alternative che sappiano appassionarli con percorsi di formazione o percorsi lavorativi. Tutte queste misure, da sole, rischiano di trasformarsi solo in propaganda politica per creare consenso. Ma la propaganda non risolve le complessità che stiamo vivendo. Infatti «c’ è bisogno», dice Morniroli, «di una scuola che non rinunci ad accogliere questi ragazzi. Ragazzi che spesso vanno avanti a sospensioni e che poi la scuola butta fuori. Sono necessarie politiche di altro tipo: si sa o non si sa che in alcune aree del Paese, quelle fortemente degradate e povere dal punto di vista economico, sociale, culturale, l’abbandono scolastico è ereditario? Abbandono che riguarda l’80% delle situazioni. Si sa o non si sa che almeno uno dei genitori del ragazzo che abbandona ha, a sua volta, avuto una carriera scolastica fragile? Davvero si pensa che può bastare una multa? Davvero si possono mettere in carcere una mamme e un papà perché i figli non vanno a scuola? Ragioniamo al contrario: creiamo invece in questi genitori la consapevolezza dell’importanza di dare opportunità educative e formative ai loro figli. Allo stesso modo internet, invece di toglierlo, non sarebbe meglio fare educazione per una buona navigazione?».
Davvero si possono mettere in carcere una mamme e un papà perché i figli non vanno a scuola? Ragioniamo al contrario: creiamo invece in questi genitori la consapevolezza dell’importanza di dare opportunità educative e formative ai loro figli
Andrea Morniroli
E ancora: «Sugli stupri e la violenza di genere certo che bisogna punire i responsabili, ma anche: perché in questo Paese non si decide una volta per tutte che l’educazione sessuale e affettiva deve essere una materia obbligatoria prevista fin alle scuole di primo grado? Perché non ripensiamo ai libri di testo? Il 70% delle loro pagine riproducono stereotipi di genere: le donne sempre impegnate con i lavori domestici e gli uomini che portano i soldi a casa o fanno lavori eroici».
Farsi carico della complessità
«Ci facciamo sì o no carico di questa complessità? Abbiamo il coraggio? Farsi carico e avere il coraggio significa investire fortemente in educazione, cultura, socialità, in servizi territoriali di prossimità. Pensiamo a Palermo o Caivano: i centri anti violenza sono poco diffusi, la prima cosa da fare è aprirli e dentro dobbiamo portare iniziative culturali. Uno Stato serio chiama tutte le realtà del territorio, a Caivano anche ce ne sono di meravigliose, e dice: “qui ci sono i fondi, li spendiamo con voi, e poi insieme valutiamo gli interventi messi in campo“. Ma cosa si fa con i fondi lo devono dire anche i cittadini che abitano zone fragili come il Parco Verde, è a loro che bisogna chiedere “di cosa hai bisogno?”».
Noi società civile, senza Stato, non riusciamo a fare tutto. Facciamo lo “straordinario”, ma lo straordinario non sarà mai sufficiente a garantire un accesso universale ai servizi e alle opportunità.
Andrea Morniroli
Quella mano l’abbiamo armata anche noi
Torniamo a Giovanbattista Cutolo, il cui funerale è stato celebrato da don Mimmo Battaglia: “Giovanbattista, figlio di Napoli”, ha detto Battaglia, “accetta la richiesta di perdono della tua città! Accetta le scuse – forse ancora troppo poche – di coloro che si girano ogni giorno dall’altra parte, che pur occupando incarichi di responsabilità hanno tardato e tardano a mettere in campo le azioni necessarie per una città più sicura, in cui tanti giovani, troppi giovani perdono la vita per mano di loro coetanei! Perdona, figlio nostro, tutti gli adulti di Napoli, coloro che dimenticano che i bambini, gli adolescenti, i giovani sono figli di tutti e tutti devono prendersene cura, facendo la propria parte, alzando la propria voce, mettendoci la propria faccia e condividendo la propria vita dinanzi a una deriva fatta di egoismo e di indifferenza, di individualismo e narcisismo, secondo cui è importante ritagliarsi il proprio posto al sole senza curarsi invece di chi cresce e vive nell’ombra del malaffare, del disagio, della criminalità! Perdonaci tutti Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguiti azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città che abitata anche da adolescenti – poco più che bambini – camminano armati, come in una città in guerra”. Una frase in particolare: “Perdonaci tutti Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi”. Anche noi, quindi tutti, come ci facciamo carico di questa colpa?
La società civile non deve più accontentarsi di fare lo straordinario, anzi dobbiamo pretendere che quello che oggi è straordinario diventi politica ordinaria dello Stato
Andrea Morniroli
«Ha avuto grande coraggio don Mimmo. In quel “noi” c’è anche lui e il riferimento a un patto educativo per la città che non è mai davvero partito. Credo che nessuno possa auto assolversi. E noi società civile, senza Stato, non riusciamo a fare tutto. Facciamo lo “straordinario”, ma lo straordinario non sarà mai sufficiente a garantire un accesso universale ai servizi, alle opportunità. Ecco credo anche che la società civile non debba più accontentarsi di fare lo straordinario. Anzi dobbiamo pretendere che quello che oggi è straordinario diventi e torni ad essere politica ordinaria dello Stato. Dobbiamo tornare sulla dimensione politica. E ricordarci che il sociale non siamo noi, ma le persone che dobbiamo accompagnare nei processi di emancipazione. Noi siamo solo potenziali agenti politici di cambiamento. Se il lavoro sociale fa cose straordinarie non è più lavoro sociale, ma è un’altra cosa»
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