Libri
Felicia, il coraggio di una madre che cercava la pace
Una battaglia silenziosa che gridava giustizia, quella portata avanti da Felicia Bartolotta, la mamma di Giuseppe Impastato, raccontata nel libro “Io, Felicia”, scritto da Mari Albanese e Angelo Sicilia, Pagine che regalano emozioni attraverso le conversazioni scambiate 19 anni fa dai due autori con una donna le cui parole arrivano ancora oggi sferzanti contro la mafia
Madri coraggio, dal cuore naturalmente predisposto a difendere la prole a costo della loro stessa vita. Donne che sfidano lo status familiare, le convenzioni, i pregiudizi, i tempi. Madri che gridano giustizia, come Felicia Bartolotta, cognome poco noto in quanto la si ricorda con quello del figlio, il giovane Peppino Impastato ucciso ad appena 29 anni dalla mafia il 9 maggio del 1978 a Cinisi, a pochi chilometri da Palermo
Le donne? Abbiamo fatto passi in avanti ma sempre inferiori ci considerano
— Felicia Bartolotta Impastato
Conversazioni intime e toccanti, quelle che riempiono di passione le pagine di Io, Felicia, il libro edito da Navarra editore per la collana “Passi nella Memoria”, scritto a quattro mani da Angelo Sicilia e Mari Albanese, due giovani attivisti, tra gli animatori del primo Forum Sociale Antimafia di Cinisi nato nel 2002, arricchite dalle foto di Pippo Albanese.
Scatti che esaltano un vissuto da leggere attraverso le sue rughe, ognuna delle quali sembra identificarsi con le tante strade, le tante vite che Felicia ha dovuto attraversare e impersonificare. Un lavoro prezioso quello che ci consegnano Albanese e Sicilia, insegnante di filosofia lei, presidente dell’Archivio Siciliano delle Resistenze lui, anche se ormai forse sono pochi coloro che non lo associano ai suoi “pupi antimafia”. Avrebbe cominciato ad animare i personaggi della lotta alla mafia proprio a partire da Peppino Impastato, per «fare conoscere e fare capire questa storia a tutti, vecchi e bambini».
La figura di Felicia si erge con tutta la sua forza, a partire dal suo essere figlia, sin da piccola decisa a fare valere le sue ragioni, tanto da rifiutare, a pochi giorni di distanza dalla cerimonia, il matrimonio che la famiglia le stava imponendo perché non amava il suo promesso sposo.
Una donna che rifiutò un matrimonio perché senza amore
«Io all’altare con quest’uomo non vado!», disse ai suoi genitori che, volendole bene, accettarono la sua decisione, assolutamente rivoluzionaria per quei tempi. Geni del coraggio trasmessi a Peppino, deciso e testardo sino alla fine come Felicia.
«Altro che coraggio ci voleva», si legge nelle sue conversazioni con Mari e Angelo, regalandoci dialoghi affidati a quella tipica oralità siciliana capace di dare particolare colore al dialogo. «Perché ora siamo messe bene li donne? Abbiamo fatto passi in avanti ma sempre inferiori ci considerano. Che io mi sono imposta in alcune cose con me maritu altrimenti neanche mi faceva parlare. Appena sposati glielo dissi subito che io non avrei frequentato i suoi amici e che latitanti in casa mia non ne dovevano tràsiri (trasiri = entrare)».
Il marito di cui parla Felicia era Luigi Impastato, che nonostante tutto lei sposerà per amore, mentre tra i parenti che non avrebbero mai dovuto varcare la soglia di casa sua c’era Gaetano Badalamenti, il “Tano Seduto” di Mafiopoli che Peppino sbeffeggiava dai microfoni di Onda Pazza, il programma che conduceva a Radio Aut. Anche grazie al film I cento passi di Marco Tullio Giordana, progetto che Felicia amò e avallò immediatamente, al contrario di tanti altri proposti nel passato. Ed ebbe ragione perché, grazie a questa opera cinematografica, la storia di Peppino è arrivata in ogni dove. Fondamentale il contributo dato da Umberto Santino e Anna Puglisi, che nel 1980 intestarono a Giuseppe Impastato il primo centro di studi sulla mafia sorto in Italia. E fu proprio nel libro “La mafia in casa mia”, pubblicato nel 1986 dallo stesso Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, che porta la loro firma quello nel quale Felicia Bartolotta si racconta per la prima volta. Un contributo di narrazione non indifferente, anche in virtù del fatto che contribuì a far riaprire il processo che sancì l’omicidio e non il suicidio di Peppino Impastato, portando alla condanna all’ergastolo del capomafia Badalamenti.
Il 29 aprile del 2004 Badalamenti verrà condannato all’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di Peppino. Sentenza che arriverà qualche mese prima della scomparsa di Felicia, consentendole di uscire da quella dolorosa apnea nella quale si era immersa sin dal giorno in cui il Peppino venne fatto saltare in aria, adagiato su una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, tentando di fare passare l’omicidio per un attentato fallito o un suicido. Un dolore insopportabile per una madre la morte del proprio figlio, tanto più se avviene in maniera così cruenta. Non può, quindi, passare inosservata l’immagine di Felicia che si picchiava la testa per il dolore a causa della perdita del figlio tanto da procurarsi due ematomi al cervello, a causa dei quali era finita in coma in ospedale, aveva subito un’operazione molto lunga, ma era riuscita a rinascere ancora una volta.
Ed è per evitare di soffrire a causa di un’ulteriore brutta notizia che il giorno della sentenza decise di non andare in tribunale.
«Avevo fatto tanto», racconta lei stessa. «Nonostante tutti i miei malanni ero sempre stata presente al processo, ma poi non me la sono sentita. Giovanni non ha insistito e ci andò da solo». «Ma quando arrivò la sentenza?», chiede Angelo Sicilia. «Raccontaci».
«Erano le sei del pomeriggio dell’11 aprile, arriva Maria Luisa, mia nipote, con il telefono in mano. Dice che c’era una giornalista che mi voleva parlare. Mi ha messo il telefono all’orecchio e chista (questa) mi fa: “Signora io oggi non ero al tribunale ma una mia collega ni ha detto che finalmente gli hanno dato l’ergastolo a don Tano. È felice? E io: ma lei sicura è? Io mi metto allegra solo quando torna mio figlio Giovanni da Palermo e lo sento dalla sua voce”. Quando è tornato, mio figlio era felicissimo e pure so mugghieri (sua moglie). Ho provato tanta gioia, una punizione che ci vuole anche per i cinisari (abitanti di Cinisi, ndr) che adesso non possono chiù (più) fare finta di niente».
Radio Aut, il primo raduno antimafia organizzato da Mari Albanese il 26, 27 e 28 agosto del 2002 ad Alimena che ha radunato centinaia di persone da ogni dove anticipando un altro grande momento, la presentazione nella piazza di Cinisi di un lavoro fotografico dedicato a Peppina alla cui presentazione partecipò proprio Felicia.
E, con gli occhi lucidi, disse: «Avete fatto tornare Giuseppe vivo, me lo avete riportato davanti!»
Felicia Bartolotta Impastato
Inevitabili, strette connessioni anche con la vicina città di Palermo. «Per chi ha fatto militanza politica di sinistra a Palermo negli ultimi trent’anni», scrive Angelo Sicilia, «imbattersi nella storia di Peppino Impastato era cosa naturale, quasi scontata. A Palermo negli anni ‘80 la mattanza divenne il modus operandi della strategia criminale mafiosa e, oltre ai magistrati e alle forze dell’ordine, il piombo non risparmiava neanche giovani e bambini. Come a San Lorenzo, quartiere ad altissima densità mafiosa, un tempo luogo di limoni e aranceti, oggi di anonimi palazzoni costruiti durante il famoso “sacco di Palermo”. Una piattezza squarciata un pomeriggio di ottobre del 1986 dall’omicidio di Claudio Domino, appena 11 anni, ancora oggi senza colpevoli e senza processi. O come quello di Lia Pipitone, 25 anni, uccisa all’Arenella, altro quartiere difficile del capoluogo siciliano, punita pare dal padre perché si era opposta alle catene dell’oppressione mafiosa».
Riportare fedelmente quel che è accaduto è importante. Raccontare, del resto, è sempre stata la missione che “Mamma Felicia” ha portato avanti sino all’ultimo. «La ragione di vita», scrive nella prefazione Luisa Impastato, «che le ha permesso di non farsi annientare dal dolore per la perdita, un modo per vivificarne il ricordo non solo per gli altri ma anche per sé stessa, per riviverlo, per ripercorrere quei momenti». Ricordare, anche e soprattutto dopo tanti anni.
Continuate a raccontare questa storia
Il libro, infatti, non nasce subito dopo le tante ore di conversazioni con Felicia ma a distanza di 19 anni, prendendo vita nel 2020 quando, il 7 dicembre, celebrando l’anniversario della sua morte, Angelo e Maria si guardano in faccia decidendo che è il momento di tirare fuori quel patrimonio di conoscenze che è stato consegnato loro perché «questo tempo storico chiede una responsabilità verso le nuove generazioni e verso Felicia, che i giovani li amava e li accoglieva in casa sua».
Grazie anche a questo lavoro editoriale, infatti, le parole di Felicia risuonano forti diventando quasi un monito. Parole dolci e sferzanti diventano mantra a futura memoria, sottolineate dal ricordo di movimenti lenti come quello con cui trascinava la sedia per camminare dopo la rottura del femore, la stessa sedia sulla quale si sedeva per iniziare a raccontare.
«Il rumore di quella sedia trascinata», aggiunge Luisa Impastato, «era per me un suono familiare che annunciava il suo arrivo dall’altra stanza e che venne sostituito da un insopportabile silenzio subito dopo la sua scomparsa».
Anche per tutto questo il libro di Mari e Angelo ha un valore che va oltre l’opera letteraria. È testimonianza, memoria viva che respira attraverso le parole di Felicia che chiudono il libro.
«Continuate a raccontare questa storia a tutti i giovani come a voi che io mica haiu a campari pi sempri (devo vivere per sempre), ottantasei anni si fannu sentiri tutti (si fanno sentire tutti). Ma sugnu chiu tranquilla ora, un vu sacciu spiegari (ma sono più tranquilla ora, non ve lo so spiegare). A me casa è sempri aperta ppi tutti (la mia casa è sempre aperta per tutti). Che tutti l’hanno a vidiri che Giuseppe ancora cca è e ci talia ed è cuntentu (che tutti lo devono vedere che Giuseppe è ancora qui, ci guarda ed è contento). Solo così li possiamo isolare questi mafiosi, lasciarli di part (da parte). Sulu accussì il sacrificio di Giuseppe non sarà stato inutili (solo così il sacrificio di Giuseppe non sarà stato inutile)».
Nella foto di apertura: Felicia Bartolotta Impastato affacciata alla sua persiana, nella casa di Cinisi (foto Pino Manzella)
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