Emancipazione

Natali, un calcio ai pregiudizi in nome della libertà

di Luigi Alfonso

Una giovane palestinese che sognava il calcio professionistico europeo. La scelta di andare a vivere in Sardegna. E un libro che parla di donne e barriere culturali da abbattere

Un calciatore che porta il numero 11 sulla maglia è un predestinato, se decide di lasciare la propria terra per trasferirsi a migliaia di chilometri, nell’isola che ha accolto il più grande numero 11 della storia del calcio italiano, vale a dire Gigi Riva. Qui non parliamo di un uomo, bensì di una giovane donna. Che ha salutato con amarezza la sua Palestina non solo per fare carriera inseguendo un pallone ma perché nel suo Paese alle donne non è consentito di giocare liberamente al calcio.

La Sardegna nel 2018 l’ha accolta a braccia aperte. Due anni prima, la 29enne Natali Shaheen si era laureata a Gerusalemme in Scienze motorie, mentre nel 2020 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Lingue, letterature e culture dell’età moderna e contemporanea, all’Università di Sassari. L’anno scorso ha pubblicato il libro “Un calcio ai pregiudizi” (Edes – Editrice Democratica Sarda, 172 pagine), basato sulla sua tesi di laurea, nel quale parla delle difficoltà economiche, culturali e politiche che le donne palestinesi devono affrontare per giocare a calcio. Ex capitano della nazionale di calcio della Palestina, Natali è stata premiata lo scorso maggio alla cerimonia della quinta edizione del Premio “Sport e diritti umani”, promosso da Amnesty International Italia e Sport4Society, insieme a Gary Lineker, un’icona del calcio inglese del passato e Scarpa d’oro ai Mondiali del 1986, al quale è stato riconosciuto il costante impegno nel promuovere i diritti umani attraverso l’attività di commentatore sportivo televisivo e con iniziative come la campagna “Football Welcomes”, che sostiene i rifugiati e i richiedenti asilo tramite il calcio e favorisce l’inclusione sociale.

Una bella soddisfazione, per lei.

«Sì, una grande gioia. Un risultato molto importante, non solo per me ma anche per tante ragazze che ora hanno un motivo in più per nutrire una speranza: con dedizione e costanza, attraverso lo sport, possono arrivare a realizzare i loro sogni.

La copertina del libro scritto da Natali Shaheen

La giuria le ha assegnato il prestigioso riconoscimento per la sua determinazione e il suo impegno nella difesa dei diritti umani e del diritto allo sport.

«È un onore per me aver ricevuto questo premio. Il mio sogno è quello di promuovere il più possibile le pari opportunità attraverso gli Open Day di calcio femminile. Occasioni d’incontro all’insegna dell’uguaglianza, ma anche per scoprire nuovi talenti. A Sassari, oppure nella mia città, Gerico, e nei piccoli villaggi o nei campi profughi dove le donne sono emarginate. Se gli incassi lo consentiranno, vorrei organizzare qualche Open Day nei campi profughi in Giordania, per palestinesi, siriani e iracheni».

Lei ha scritto: “Nell’Islam l’attività fisica per tutti, donne incluse, è presa in considerazione soltanto per tre principali ragioni: restare in salute, prendersi del tempo libero, essere pronti alla guerra”.

«Sì, e non è una mia considerazione, bensì ciò che emerge da più parti: sia nel Corano che nell’Hadith. Quest’ultimo contiene affermazioni o detti del profeta Maometto con resoconti relativi alla pratica quotidiana. Il problema è che ogni ricercatore e studioso interpreta i sacri testi come crede: c’è chi dice che le donne non possano praticare lo sport, chi invece sostiene che possano fare attività fisica ma non davanti al pubblico; altri ancora affermano che le donne possono fare sport purché il fisico sia coperto. Resta un fatto sostanziale: non è tanto una questione religiosa bensì di cultura. Di solito i problemi più grandi si riscontrano all’interno della famiglia di appartenenza, con resistenze forti da parte di padri e fratelli che temono i giudizi della gente. Un condizionamento sociale fortissimo. Eppure nel Corano emerge chiaramente il concetto di uguaglianza tra donne e uomini, al punto che esse già nell’antichità partecipavano alle guerre».

Natali ritratta in un sito archeologico della sua Palestina

La Palestina, sua terra natia, è conosciuta per motivi certamente non legati al calcio e allo sport.

«Prevale l’aspetto politico, non c’è dubbio. E temo che ce lo porteremo dietro per sempre».

Nel suo Paese, le donne sono relegate al tradizionale ruolo di madri e mogli. Non siete ancora riuscite a superare gli ostacoli che sono peraltro comuni ad altre realtà mediorientali. Perché?

«Ci sono tanti motivi, anche se la situazione ultimamente è un po’ migliorata: penso per esempio all’accesso delle donne agli studi, per lo meno nei Paesi più grandi. Era un problema che esisteva anche in Sardegna, sino agli inizi del Novecento, ma è stato superato rapidamente. Molti limiti, in Palestina, sono originati dalla paura: per un maschio, passare per un check-point è una cosa abbastanza normale; per le donne no. E molti genitori preferiscono non rischiare. Anche la mia famiglia aveva paura che mi accadesse qualcosa di spiacevole, ma ha prevalso il desiderio di vedermi appagata. Per una mia cugina è andata diversamente: nella sua famiglia non erano contrari alla pratica sportiva, tuttavia temevano il parere di parenti e amici. Mancano, infine, le infrastrutture: palestre e circoli riservati alle donne. Se si inizia, poi diventa più facile incentivare lo sport».

Natali in azione con la nazionale femminile palestinese di calcio

Come mai ha scelto di vivere in Italia?

«Sognavo di giocare a calcio in Europa. L’associazione “Ponti non muri” di Sassari ha portato dalle mie parti un progetto di atletica leggera, proprio in un periodo in cui gli impianti erano chiusi. Ho deciso di partecipare per tenermi in allenamento, non ero interessata alle gare. Con loro ho seguito un corso di italiano, una lingua che mi è piaciuta da subito, e alla fine mi hanno invitata a venire in Sardegna. In questa isola ho fatto uno stage, purtroppo la pluriscudettata Torres Sassari nel frattempo era stata dichiarata fallita ed è stata estromessa dalla serie A. Mi sono allenata con il Cus Sassari e poi ho iniziato a giocare al calcio a cinque. Così ho deciso di fermarmi per cominciare un’altra vita, qui lavoro e continuo a stare nello sport: gioco nell’Athena Sassari di calcio a 5, in serie A2, e alleno i bambini del Latte Dolce Calcio».

Lei ha trovato una nuova famiglia proprio quando ha incontrato i volontari dell’associazione “Ponti non muri”.

«È molto più di una famiglia, sin da quando mi hanno aiutato a fare i documenti per arrivare in Italia. La presidente Lavinia Rosa è sempre stata presente al mio fianco, mi ha aiutata nella traduzione del mio libro dall’inglese all’italiano».

Un’altra bella immagine di Natali Shaheen in Palestina

Appena un anno fa, l’esercito israeliano ha ucciso numerosi calciatori palestinesi. Ma, nonostante la forte denuncia della Federazione del vostro Paese, la Fifa non si è sentita in dovere di assumere una posizione di condanna.

«Contiamo poco o niente, è piuttosto evidente. Se un’atleta espone la bandiera palestinese durante una manifestazione sportiva, incorre in sanzioni disciplinari e pure in una multa salata, perché è vietato “fare politica” nello sport. Mi può stare bene, ma allora devono spiegarmi perché non accade la stessa cosa se un atleta ucraino mostra la bandiera del suo Paese. In quel caso è una manifestazione di pace, non politica. Forse i bambini che muoiono in Palestina contano meno degli altri?».

Che cos’è il calcio per lei? E cosa può essere per le donne palestinesi?

«Quand’ero bambina, era soltanto un gioco. Un divertimento che poi è diventata passione vera. Come lo era per altre bambine che giocavano spensieratamente insieme a tanti coetanei. Oggi il calcio è molto di più: un messaggio sociale, politico e di libertà. Ci permette di dire che esistiamo pure noi. Anche se qualcuno finge di non essersene accorto».

Natali impegnata in un incontro della serie A2 femminile di calcio a cinque

La Palestina viene considerata una sorte di ponte tra l’Asia e l’Africa, guarda caso due continenti emergenti. È un’immagine fortemente simbolica, non trova?

«A scuola abbiamo studiato questo aspetto. La Striscia di Gaza confina con l’Egitto, dunque è la porta per il continente nero. Dall’altra parte, siamo aperti all’Asia attraverso la Giordania. Rispetto al passato, oggi è un po’ più semplice muoversi per il mondo. E mi rendo conto che ci sono tante trasformazioni in atto, dappertutto. Ma il nostro cammino è ancora lungo».

Il suo è il Paese delle tre principali religioni monoteiste. Ma dall’occupazione del 1948 è cambiato tutto. E i 570 km di muri innalzati negli anni non sono l’unico ostacolo alla vostra libertà.

«La situazione va peggiorando di anno in anno, purtroppo. Gli israeliani continuano a prenderci un pezzo di terreno, ogni giorno di più. E siamo limitati negli spostamenti. Ho amici che confinano con la casa della mia famiglia, oggi separati da un muro. Una cosa tristissima».

Italia e Palestina hanno sempre avuto rapporti d’amicizia molto stretti. E ciò non è legato a questioni religiose, visto che i cristiani nel vostro Paese costituiscono una sparuta minoranza.

«Il legame religioso è certamente uno dei motivi principali. Io sono cristiana, ho studiato in una delle scuole “Terrasanta”, volute dal Vaticano: sono gestite da preti cattolici ma sono aperte a tutti, non ci sono distinzioni religiose. La maggior parte dei turisti che arrivano in Palestina sono italiani. Da noi vengono periodicamente i carabinieri, per tenere i corsi di formazione della nostra polizia. A Betlemme ho conosciuto un’operatrice sarda che lavora in un orfanotrofio, ma sono tanti gli italiani che lavorano o collaborano con enti palestinesi».

Lei ha donato i ricavi del libro all’associazione “Ponti non muri” per finanziare incontri educativi e promuovere il calcio femminile in Palestina e in Sardegna, con l’obiettivo di emancipare le donne nelle comunità marginalizzate.

«La vendita sta andando meglio del previsto, siamo alla terza ristampa. Sono felice perché ciò mi permetterà di aiutare tante persone a trovare una strada per emergere nella vita.

Da quanto tempo non vede la sua famiglia d’origine?

«Per mia fortuna soltanto da pochi mesi, sono andata a trovarli lo scorso mese di giugno. Dispongo di un permesso di soggiorno per lavoro, non più per studio. Non è stato facile fare la conversione, ma l’associazione mi ha aiutata anche in questo. Spero che il decreto Cutro non crei problemi anche a chi, come me, lavora regolarmente da anni».

Natali Shaheen, sabato 19 agosto, parteciperà al “Propagazioni Festival 2023” curato dal giornalista e scrittore Vito Biolchini. Al chiostro dell’Hospitalis Sancti Antoni di Oristano, con inizio alle 20:30, Natali dialogherà con i giornalisti Nando Mura e Giovanni Dessole, sul tema “Non è solo un pallone”.

La locandina degli eventi programmati per il “Propagazioni Festival 2023”

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