Volontariato

La stagione del declino

Speciale: lezioni di economia civile. Settima puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione

Alla metà del XIX secolo, con la Rivoluzione industriale all?apice, si affermano due visioni contrapposte di mercato: quella che ne fa la panacea di ogni male e grande regolatore sociale e quella che, al contrario, lo considera una jattura da riequilibrare
con l?intervento statale. Concezioni parziali che caricaturizzano la natura umana, determinando un?eclissi del pensiero economico-civile durata un secolo e mezzo e che ha condizionato l?emergere stesso del Terzo settore, costretto a definirsi come ?non Stato?

Settima lezione.Nella tenaglia di Stato e mercato

A partire dalla prima metà dell?800, la visione civile del mercato e, più in generale, dell?economia scompare, sia dalla ricerca scientifica che dal dibattito politico-culturale.
Parecchie e di diversa natura le ragioni di tale arresto. Ci limitiamo a indicare le due più rilevanti. Per un verso, l?ampia diffusione , negli ambienti dell?alta cultura europea, della filosofia utilitarista di Jeremy Bentham, la cui opera principale, del 1789, impiegherà decenni prima di entrare, in posizione egemone, nel discorso economico. Per l?altro verso, l?affermazione definitiva della società industriale che fa seguito alla rivoluzione industriale. Quella industriale è una società che produce merci. La macchina predomina ovunque e i ritmi della vita sono meccanicamente cadenzati. L?energia sostituisce, in gran parte, la forza muscolare e dà conto degli enormi incrementi di produttività, che a loro volta si accompagnano alla produzione di massa. Energia e macchina trasformano la natura del lavoro: le abilità personali sono scomposte in componenti elementari. Di qui l?esigenza del coordinamento e dell?organizzazione.
Si fa avanti così un mondo in cui gli uomini sono visualizzati come ?cose?, perché è più facile coordinare ?cose? che non uomini, e nel quale la persona è separata dal ruolo che essa svolge. Le organizzazioni, in primis le imprese, si occupano dei ruoli, non delle persone. E ciò avviene non solamente nella fabbrica, ma nella società intera. Il ford-taylorismo costituirà poi il tentativo (riuscito) più alto di teorizzare questo modello di ordine sociale. L?affermazione della ?catena di montaggio? trova il suo correlato nella diffusione del consumismo, donde la schizofrenia tipica dei ?tempi moderni?: da un lato, si esaspera la perdita di senso del lavoro (l?alienazione dovuta alla spersonalizzazione del lavoratore); dall?altro, a mo? di compensazione, si rende il consumo opulento. Il pensiero marxista e le sue articolazioni a opera del movimento socialista si adoperano in vario modo, come sappiamo, per offrire vie d?uscita a tale modello di società.
Dal complesso intrecciarsi e scontrarsi di questi due insiemi di ragioni è derivata una conseguenza importante, ai fini del nostro discorso: l?affermazione, tuttora dominante e forte più che mai, di due opposte concezioni del mercato.
L?una è quella che lo vede come un ?male necessario?, cioè come un?istituzione di cui non si può fare a meno, perché garanzia di progresso economico, ma pur sempre un ?male? da cui guardarsi e pertanto da tenere sotto controllo.
L?altra è quella che considera il mercato come luogo idealtipico per risolvere il problema politico, proprio come sostiene la posizione liberal-individualistica, secondo cui la ?logica? del mercato deve potersi estendere, sia pur con gli adattamenti e raffinamenti del caso, a tutti gli ambiti della vita associata, dalla famiglia alla scuola, alla politica.

«LO STATO NON DEVE REMARE MA STARE AL TIMONE»
Non è difficile cogliere gli elementi di oggettiva debolezza di queste due concezioni tra loro speculari. La prima, stupendamente resa dall?aforisma «Lo Stato non deve remare, ma stare al timone», si appoggia sull?argomento della lotta alle ineguaglianze: solo interventi dello Stato in chiave redistributiva possono ridurre la forbice fra individui e fra gruppi sociali.
Le cose però non stanno in questi termini. Le disuguaglianze nei nostri Paesi avanzati, che erano diminuite dal 1945 in poi, sono tornate scandalosamente a crescere negli ultimi vent?anni e ciò nonostante i massicci interventi dello Stato in economia, (in Italia, lo Stato intermedia circa il 50% della ricchezza prodotta nel Paese).

REDISTRIBUZIONE: COMPITO ESCLUSIVO DELO STATO?
Conosciamo certamente le ragioni di ciò: dall?ingresso nei processi produttivi delle nuove tecnologie al fenomeno della globalizzazione, ma il punto è capire perché la redistribuzione perequatrice non può essere un compito esclusivo dello Stato. Il fatto è che la stabilità politica è un obiettivo che, nelle condizioni attuali, non si raggiunge con misure di riduzione delle ineguaglianze, ma con la crescita economica.
La durata e la reputazione dei nostri governi democratici sono assai più determinate dalla loro capacità di accrescere il livello della ricchezza che non dalla loro abilità di ridistribuirla equamente tra i cittadini. E ciò per la semplice, ma tragica, ragione che i ?poveri? non vanno a votare, o ci vanno relativamente meno, e dunque non costituiscono una classe di stakeholders (i portatori di interessi) capace di impensierire la ragion politica. Ecco perché, oggi, occorre intervenire anche sul momento della produzione della ricchezza e non solo su quello della ridistribuzione se si vuole contrastare l?aumento endemico delle disuguaglianze.
Cosa c?è che non regge nell?altra concezione del mercato, oggi efficacemente veicolata dal pensiero unico della one best way? C?è che non è vero che la massima estensione della logica (liberal-individualistica) del mercato accresce il benessere per tutti. Non è vera, cioè, la metafora secondo cui «una marea che sale solleva tutte le barche».
Chi crede a quella metafora ragiona così: poiché il benessere dei cittadini dipende dalla prosperità economica e poiché questa è associata all?estensione delle relazioni di mercato, la vera priorità dell?azione politica dovrebbe essere quella di assicurare le condizioni per la fioritura massima dei mercati. Se ne trae che il Welfare state quanto più è generoso tanto più agisce come vincolo alla crescita economica e quindi alla diffusione di benessere. Donde la raccomandazione di un Welfare che si occupi solamente di coloro che la gara di mercato lascia ai margini. Quelli che, invece, riescono a rimanere nel il circuito virtuoso della crescita, provvederanno da sé alla propria tutela.
Ebbene, è la semplice osservazione dei fatti a svelarci l?aporia che sta alla base di tale linea di pensiero: crescita economica (cioè aumenti sostenuti di ricchezza) e progresso civile (cioè allargamento degli spazi di libertà delle persone) non riescono più a marciare insieme. Come dire che all?aumento del benessere (Welfare) non si accompagna più un aumento della felicità (well-being).
Le due concezioni di mercato che abbiamo or ora criticato, tra loro diversissime quanto a presupposti filosofici e a conseguenze politiche, hanno finito col generare, a livello di cultura popolare, un risultato a dir poco paradossale (ovviamente non intenzionale). Si tratta dell?affermazione di un?idea di mercato antitetica a quella della tradizione di pensiero dell?economia civile. Un?idea, cioè, che vede il mercato come meccanismo fondato su una duplice norma: l?impersonalità delle relazioni di scambio (tanto meno conosco della mia controparte tanto maggiore sarà il mio vantaggio, perché gli affari riescono meglio con gli sconosciuti!); il comportamento esclusivamente auto-interessato di tutti coloro che prendono parte al gioco di mercato (e a ?sentimenti morali? come la simpatia, la reciprocità, la socialità ecc., se pure vengono riconosciuti, non viene attribuito nell?arena del mercato uno spazio in cui manifestarsi concretamente).
È così accaduto che la progressiva e maestosa espansione delle relazioni di mercato nel corso dell?ultimo secolo e mezzo ha finito con il rafforzare quell?interpretazione pessimistica del carattere degli esseri umani che, come abbiamo visto nella Lezione 3, era stata teorizzata da Hobbes e da Mandeville: solo le dure leggi del mercato riuscirebbero a domarne gli impulsi perversi e le pulsioni di tipo anarchico.
La visione caricaturale della natura umana che così si è imposta ha contribuito ad accreditare un duplice errore: che la sfera del mercato coincida con quella dell?egoismo, con il luogo in cui ognuno persegue, al meglio, i propri interessi collettivi e, simmetricamente, che la sfera dello Stato coincida con quella della solidarietà, del perseguimento cioè degli interessi collettivi.
È su tale fondamento che è stato eretto il ben noto, ma assai fragile, modello dicotomico Stato-mercato: l?identificazione dello Stato con il pubblico e del mercato (luogo delle sole imprese che operano per il profitto) con il privato.
Ma vi è di più. Quel che è peggio è che l?uscita di scena della prospettiva dell?economia civile, del mercato come veicolo di civilizzazione, ha costretto quelle organizzazioni della società civile oggi universalmente note come non profit o Terzo settore, a definire la propria identità in negativo rispetto ai termini di quella dicotomia: come ?non Stato? o ?non mercato?. Si consideri una realtà come quella nordamericana, dove, per tutto un insieme di ragioni, l?istituzione Stato non ha mai giocato un ruolo determinante nel forgiare l?ordine economico di quella società.

DEFINIRSI NON PROFIT,UNA SCELTA OBBLIGATA
In un contesto del genere, se un soggetto della società civile vuole intervenire in ambito economico con la produzione di beni o servizi senza però perseguire l?obiettivo del profitto, non ha altra scelta che chiamarsi ?non profit?. In tal senso, gli enti non profit si connotano come non mercato, perché quest?ultimo è occupato totalmente dagli enti for profit. Non è privo di interesse ricordare che nel Nordamerica la stragrande maggioranza delle organizzazioni non profit sono nate per iniziativa di imprenditori for profit e non già da associazioni, come in Europa. Tanto è vero che scuole, università, ospedali, fondazioni conservano il nome del loro fondatore o benefattore, quasi sempre un uomo d?affari.
Si consideri ora l?Europa, dove lo Stato ha sempre esercitato un ruolo importante nella sfera economico-sociale (non si dimentichi che il Welfare state è tipica invenzione e realizzazione europea). In tale quadro, le organizzazioni della società civile che hanno voluto emergere come alternativa alla modalità di fornitura pubblico-statale dei servizi di welfare hanno dovuto caratterizzarsi come non Stato.
Non avrebbe avuto senso, infatti, che si chiamassero non profit, dal momento che anche l?ente pubblico è un soggetto non profit. Di qui l?espressione Terzo settore: un settore che è, appunto, terzo dopo il mercato e lo Stato.

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