Formazione

Che cosa abbiamo capito in quell’11 settembre

I ragazzi di Yalla Italia raccontano, in un numero dedicato, il giorno che ha segnato in profondità le loro vite. L'editoriale

di Redazione

11 settembre 2001. Una data che ha preso posto con prepotenza nella storia dell’umanità e che a distanza di sei anni continua ad essere ricordata e nominata provando nello stesso momento l’identica sensazione di quella tragica mattina. Una data che ha pesato come una condanna senza possibilità di appello per tutti i musulmani nel mondo, in quanto in quel preciso momento migliaia di persone in Occidente hanno odiato l’Islam, i musulmani e il mondo arabo senza preoccuparsi di fare distinzioni o trovare eccezioni. La loro reazione in quell’istante era probabilmente giustificata, ma noi musulmani di tutto il mondo non avevamo nessuna colpa rispetto a quello che era successo, anzi ne eravamo semmai le prime vittime. Ricordo che perfino i miei vicini di casa iniziarono a guardarmi con sospetto. Quella giornata e soprattutto i mesi successivi mi hanno visto lottare su due fronti con la stessa intensità: da una parte dovevo urlare a squarciagola il mio, il nostro no alla violenza e al terrorismo arrivando quasi a dover giustificare alla società dove ero cresciuto e che sentivo mia la motivazione per cui ero musulmano. Dall’altra parte, dovevo scuotere i miei fratelli e le mie sorelle dal loro lungo sonno sbattendo loro in faccia la drammatica realtà di cui forse non se ne resero veramente conto: migliaia di persone innocenti erano state massacrate in nome del nostro Dio, del nostro Profeta e del nostro Corano. E non si trattava dell’ennesimo attentato a cui purtroppo il terrorismo di matrice islamica ci aveva abituato, e che ?bastava? liquidarlo con il comunicato di condanna standard da spedire alle agenzie stampa. No. Questa volta era successa una grande tragedia e persone come l’ex imam di Torino, Bouchta Bouriqui che s’ingegnavano a cercare le prove del coinvolgimento o meno di Osama Bin Laden e a investigare le possibili cause di quel massacro, facevano semplicemente il gioco di chi non aspettava altro che attaccare l’Islam e i musulmani. Questi nostri improvvisati Mr. Islam erano più dannosi di chi invece aveva deciso di portare i panni dell’islamofobo come professione, assicurandosi così una brillante carriera. Da persone di fede e insieme ai nostri fratelli cristiani ed ebrei decidemmo allora che l’unica cosa da fare per evitare il crollo totale di quel piccolo e fragile ponte che eravamo riusciti a costruire, era rilanciare ancora con più forza il dialogo interreligioso, un dialogo in primis tra persone. Si aprì una nuova fase di dura autocritica interna tra i musulmani, in cui le componenti più ragionevoli avevano condannato una volta per tutte qualsiasi forma di violenza, la strategia fondata sull’ambiguità del doppio linguaggio e l’avvio di un dialogo con i non musulmani vissuto come principio di fede, fautore della convivenza pacifica e non semplicemente un elemento secondario di public relation. Da quel tragico giorno fummo costretti, io insieme a tanti miei coetanei, a rimetterci sul serio nello studio del Corano, della vita del profeta Muhammad e a seguire con attenzione gli scritti e gli interventi dei sapienti più illuminati del panorama islamico. Dovevamo individuare una inedita posizione di equilibrio interiore che rafforzasse il nostro convincimento che Bin Laden e i suoi amici non avevano nulla a che fare con la nostra fede e con l’Islam, bensì ne erano i peggiori manipolatori. D’altra parte dovevamo ripensare una nuova formula di cittadinanza attiva che riportasse fiducia tra noi e i nostri concittadini di altre fedi, trovando la perfetta sintesi tra l’essere nuovi cittadini e nello stesso momento buoni musulmani. Un sfida che a distanza di sei anni da quell’11 settembre ci riserva ancora un duro lavoro e che non potremo mai superare senza l’aiuto e il sostegno di tutti i musulmani e della società che ci ha allevati e di cui ci sentiamo parte integrante. Yalla Italia, il mensile delle seconde generazioni:

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