Cultura

Le università di Cagliari e Sassari motore di sviluppo della Sardegna

I due Atenei possono contribuire in maniera determinante a fare sistema, insieme ad altre istituzioni (come la Fondazione di Sardegna), per dare slancio all'economia dell'Isola. Una studentessa di Pula (Cagliari) parla dei vantaggi offerti dall'apertura verso altre culture del Mediterraneo, in particolare quelle del vicino Nord Africa. Questo articolo è stato selezionato tra i 43 redatti durante il corso "Raccontare Vita", curato dal professor Vittorio Pelligra

di Giulia Scanu

«Ciao, come stai?». È una domanda che ogni giorno sentiamo continuamente, spesso trascurando la sua importanza comunicativa e l’impatto che una semplice domanda può avere sulle altre persone. Attualmente, discriminazione e differenze sostanziali costituiscono una piaga del tessuto sociale in cui viviamo. La causa, probabilmente, risiede nella paura dell’ignoto e nell’imprevedibilità che ne consegue, che lascia brancolare nel buio senza vedere la luce. La paura dello “straniero” spesso spinge le persone a prendere una posizione difensiva, altre volte aggressiva, per tutelare ciò che è nostro, ciò che è della nostra collettività, quella che è la nostra identità.

Nella storia della Sardegna, la popolazione locale è stata spesso esposta ad attacchi di invasori stranieri e costretta a migrare nell’entroterra per proteggersi. Secondo alcune versioni, i Sardi appianarono le divergenze interne, unendosi di città in città, per difendersi contro i soprusi esterni. In altri casi si narra di come un popolo di mercanti abbia accolto e imparato da altre culture mediterranee arrivate nell’Isola attraverso il mare. Talvolta si può essere illusoriamente convinti che la serenità risieda nella stabilità e, di conseguenza, il cambiamento non viene visto di buon grado. L’aspetto che tendenzialmente viene sottovalutato è quanti problemi sociali siano causati dall’inazione, dalla negazione degli stessi problemi, dall’atteggiamento supponente e orgoglioso di non avere bisogno di nessuno. Nell’antichità poteva essere usuale che vi fossero popolazioni sottomesse, vezzeggiate e schernite da quelle sovrane ma, in una società moderna, non può essere sicuramente un atteggiamento tollerabile. Non è tollerabile “tra pari” ma neanche “verso inferiori” (se così si possano definire certi tipi di relationships). Chi è “inferiore”? Qual è il metro di misura per giudicare? Forse noi stessi siamo inferiori ad altri, e questi altri inferiori ad altri ancora… e se ci fosse qualcuno nella vetta, avrebbe per certo la serenità/stabilità ambita? Forse no, perché queste considerazioni, probabilmente, sono solo frutto di idealismi spinti dai sistemi economico-sociali, in cui la competizione è tutto. Vince il migliore. Ma non è tanto importante essere il migliore, quanto quali valori abbiano portato a raggiungere lo status di “migliore”, grazie a un business model vincente, etico e sostenibile.


La Sardegna a volte si trova ad essere l’ultima ruota del carro statale, orgogliosa e statica nelle sue posizioni, dimenticandosi delle origini antiche e del mix di DNA che nei secoli hanno vissuto i Sardi. In un periodo storico in cui la tendenza è quella della standardizzazione, della competizione sleale o dell’eccesso di individualismo, stereotipi e disinformazione, è giunto il momento di tornare ai valori genuini, di collaborazione e apertura mentale, che hanno contribuito a generare una cultura e tradizione ospitale millenaria. Per portare avanti questo progetto di ripartenza servono quante più forze e competenze possibili ma, soprattutto, “diverse”. È proprio un punto di vista differente, esterno e oggettivo, che permetterebbe di portare alla luce gli spigoli da smussare che due persone simili non noterebbero mai.

Esistono delle realtà territoriali sarde che sono riuscite a cogliere e credere in questo messaggio, coinvolgendo anche diversi attori istituzionali, grazie all’intuizione. Un esempio è la Fondazione di Sardegna che “(…) persegue finalità di interesse pubblico e di utilità sociale. In particolare, promuove lo sviluppo socio-economico della Regione Sardegna, (…)”, come recita il sito ufficiale della Fondazione. Si vuole sottolineare come venga perseguito lo sviluppo socio-economico, esaminando quali possano essere (sul pratico) gli obiettivi della Fondazione stessa. Quello più rilevante, a tale scopo, va a configurarsi nell’erogazione di finanziamenti alle Università di Cagliari e Sassari, destinati alla ricerca di base. Il presidente della Fondazione, in un’intervista, ha spiegato: «Rafforzando le Università, stiamo rafforzando l’intero sistema sociale e formativo della nostra regione».

Perché la Fondazione ha scelto l’Università come uno dei mezzi per soddisfare i suoi obiettivi? La posizione è chiara: non ci potrebbe essere un laboratorio migliore dell’università per formare menti professionali, di morale e con effetti duraturi nel tempo. Dopotutto, le Università sarde, a causa dell’insularità, hanno molte più difficoltà ad entrare nelle preferenze dei loro “clienti” rispetto alle altre Università italiane. Questo fattore costituisce, chiaramente, un limite per lo sviluppo universitario, e non solo. La popolazione si ritrova chiusa nel suo microsistema (fosse anche per l’esposizione ad un accento linguistico diverso) in cui la minore esposizione alla diversità porta ad una minore elasticità e prontezza nella risoluzione dei problemi e, inevitabilmente, alla staticità dell’approccio degli stessi. Grazie ad investimenti pluriennali, gli Atenei dell’Isola potrebbero raggiungere l’eccellenza necessaria per attrarre nuovi studenti e investitori esterni, da cui ne conseguirebbe il miglioramento del mercato del lavoro. Esulando il solo indirizzo turistico e sfruttando tutti i punti forti della Sardegna.

Nello specifico, la Fondazione di Sardegna e le Università di Cagliari e Sassari, grazie alle convenzioni tra le parti, hanno reso possibile attivare per diversi anni progetti quali Unica4Refugees e ForMed. In particolare, ForMed si pone l’obiettivo di attirare gli studenti di Tunisia, Marocco e Algeria nelle due Università. La selezione avviene tramite concorso e per raggiungimento di meriti, finanziando borse di studio di mobilità.

Evidentemente, la scelta di aprirsi al Mediterraneo non è del tutto casuale, ma spinta dalle tante similarità riscontrabili tra la cultura sarda e le culture del Nord Africa. Ad ogni modo, la socializzazione è un processo che ha bisogno di anni di investimenti, stimoli e di continuo supporto per la collaborazione e integrazione tra popoli. A tale scopo, la collaborazione tra le Università sarde e straniere prepara i giovani studenti alla lingua e alla cultura italiana, prima di intraprendere il viaggio. Durante il percorso di permanenza, vengono affiancati da un mediatore culturale e da studenti che hanno studiato la lingua araba, per facilitarne l’inserimento e dare il supporto necessario. Ogni giorno, questi ragazzi vivono e si relazionano con tante persone del luogo: i professori durante le lezioni, il personale delle varie mense universitarie, i colleghi provenienti da tutta la regione, i locatari dell’appartamento che prendono in affitto oppure gli operatori dell’Ersu (tra cui le Case dello Studente). Tutti i mezzi a disposizione vengono utilizzati per permettere di essere seguiti e supportati in tutte le loro esigenze. Ma è sufficiente? Purtroppo, nella realtà può accadere che siano vittime di soprusi. A volte, le persone non vedono degli studenti che hanno preso in mano la propria vita facendo una scelta coraggiosa. È più facile notare qualcuno per il colore della pelle un po’ più scuro dei canoni e soprattutto per una lingua sconosciuta. Una storia, che purtroppo mi è stata raccontata tante volte, parla della paura di parlare nella propria lingua madre. Tante volte, in mezzo ad altre persone, preferiscono parlare in francese (o altre lingue comunitarie) al telefono con i loro familiari, per non essere notati, per non essere scherniti e avviliti pubblicamente. Ma la discriminazione più comune è per il colore della pelle. Chi vanta pelle e occhi più chiari è privilegiato e viene trattato come un “comune ragazzo o ragazza europeo”.

«Come stai?». Forse questa semplice domanda ha veramente un peso e un significato più profondo dell’apparenza. Le esperienze che questi giovani, studenti e non, vivono ogni giorno, la lontananza dalle loro famiglie per mesi, la paura di non farcela da soli, discriminazioni, ingiustizie, la giovane età, non sono forse gli stessi pensieri che attanagliano un giovane italiano all’estero? Magari, facendo uno sforzo per cambiare l’approccio, si potrebbe scoprire piacevolmente che la sua nonnina condivide la stessa ricetta della tua nonna. Magari un po’ più speziata, ma la ricetta è la stessa.

Qual è lo scopo ultimo del progetto e perché è importante che la Sardegna sia il laboratorio di un nuovo modello economico, etico e sociale? Formare giovani di tutte le nazionalità, a casa nostra, è utile alla nostra collettività. È importante avere la possibilità di mettersi in discussione e mettersi in gioco con progetti sfidanti, ma anche fondare un laboratorio in cui le persone creino qualcosa di nuovo insieme, multiculturale e resiliente. Perché la Sardegna ha bisogno della freschezza di nuove menti, che hanno conosciuto il territorio, che hanno vissuto la nostra terra, amandola come noi se non anche di più, avendola scelta tra le tante opportunità.

Questo articolo, scritto da una studentessa iscritta al corso “Raccontare Vita” (organizzato dall’Università degli studi di Cagliari in collaborazione con Vita a Sud, CSV Sardegna Solidale e Fondazione Domus de Luna, coordinato dal professor Vittorio Pelligra), è uno dei tre testi selezionati tra i 43 partecipanti per la pubblicazione su Vita.

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