Finiamola con la propaganda anti non profit
Dal business dell’accoglienza alle case famiglia che lucrano sui bambini accolti, negli ultimi anni il giudizio dell’opinione pubblica sulle organizzazioni non profit e su chi lavora nel sociale si è inasprito. Ma come nasce questa diffidenza e, soprattutto, è fondata?
Dal business dell’accoglienza alle case famiglia che lucrano sui bambini accolti, negli ultimi anni il giudizio dell’opinione pubblica sulle organizzazioni non profit e su chi lavora nel sociale si è inasprito. Ma come nasce questa diffidenza e, soprattutto, è fondata? No, ma procediamo con ordine.
Come è nata la propaganda anti non profit? Il caso più eclatante di narrazione tossica contro il non profit è stato quello successivo al 15 dicembre 2016, quando il Financial Times ha pubblicato un articolo in cui dichiarava di avere un rapporto di Frontex (l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne) nel quale venivano denunciati legami tra trafficanti di esseri umani e organizzazioni umanitarie. I media italiani hanno dato molta voce a questa notizia e diversi esponenti politici hanno preteso, indignati, di aprire indagini sull’operato delle organizzazioni umanitarie.
In principio fu Luca Donadel, un blogger ventiquattrenne che non è un politico né un giornalista, ma studia comunicazione e carica video su YouTube. Il 6 marzo 2017 ha lanciato un video in cui prometteva di spiegare la verità sui migranti, ma in realtà non faceva altro che copiare – senza citarlo – un post del 4 dicembre 2016 del think-tank olandese Gefira, ripreso in Italia da Libero e Il Giornale. Ripreso da Striscia la notizia, il video di Donadel è comunque diventato virale e ha dato via libera all’espressione di “servizio taxi” per le Ong, poi ripresa dall’oggi Ministro e allora capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio su Facebook e diventata l’emblema della diffidenza verso le organizzazioni umanitarie.
Il video di Donadel è stato analizzato e molto criticato. Donadel superficializza tematiche molto più complesse di lui: ignorando le relazioni geopolitiche di questo periodo storico si ferma agli accordi formali e alle apparenze, ad esempio definendo “porti sicuri” luoghi che in realtà non lo sono.
Queste critiche tuttavia non hanno costretto né lui né altri che hanno diffuso notizie quantomeno ambigue o volutamente strumentali a fare alcun passo indietro. La loro comunicazione è di richiamo per una certa fetta di popolazione: semplice, diretta, dice cose apparentemente di buon senso. Non importa quanto vere.
Così, in poco tempo, da “potrebbe esserci un’organizzazione che ha rapporti con trafficanti” si è passati a “qualsiasi organizzazione ha rapporti con i trafficanti”. È facile intuire come anche l’equazione “assistenza sociale = business” sia diventata automatica.
Il danno non è stato solo economico, in termini di calo delle donazioni che ha investito tutto il non profit, ma anche e soprattutto di reputazione. Ad averci rimesso non sono state solo le organizzazioni non governative che lavorano nel Mediterraneo: educatori ed operatori sociali di Ong, onlus e cooperative si sono trovati in imbarazzo di fronte alla richiesta di dover giustificare il proprio ruolo e il proprio stipendio, quasi come se lavorare per un’organizzazione non profit implicasse automaticamente avere qualcosa da nascondere.
Ti paga Soros? Se hai questo spirito di solidarietà perché non lo fai gratis? Aiuti anche gli stranieri? Perché non cominci dagli italiani? Sei favorevole all’immigrazione perché con quella ci campi?
Anche senza arrivare a questi estremi – che pure tanto estremi non sono, vista la loro diffusione – ha iniziato a serpeggiare un sospetto, anche non sempre esplicito, nei confronti di chi lavora nel sociale.
Ma come funziona il non profit? E quante sono e chi sono le persone che ci lavorano?
Non profit: una passione, un lavoro, non un business
Le organizzazioni non profit nascono da gruppi di cittadini e poi si evolvono in sistemi sempre più organizzati per migliorare la qualità dei loro interventi. Sono cooperative, associazioni, comitati e fondazioni nati dal basso, forme giuridiche con profili fiscali e modelli differenti di mantenimento e di raggiungimento delle proprie finalità.
L’espressione “non profit” racchiude in sé lo scopo che questo tipo di organizzazioni hanno nella nostra comunità. Non significa “senza soldi”; significa che i fondi raccolti non vengono distribuiti a soci o amministratori per il loro arricchimento ma vengono utilizzati per le finalità sociali dell’organizzazione.
L’assistenza e la solidarietà, per funzionare, hanno infatti bisogno di soldi: per organizzare i servizi, per comprare i beni necessari, per pagare il personale, per garantirne qualità e professionalità. Le organizzazioni non profit possono raccogliere fondi dalle quote associative annuali, dal fundraising (uffici che curano l’elenco dei soci e che personalizzano le richieste di sostegno per le attività), dal 5×1000, dalle donazioni private, dalla vendita di beni o servizi, dalla gestione di servizi in convenzione con enti pubblici, da fondi europei e statali previsti dalla legge e dalla partecipazione a bandi di finanziamento.
Secondo l’Istat, il giro d’affari intorno alle organizzazioni non profit supera i 64 miliardi e rappresenta il 3,5% del prodotto interno lordo, una dimensione finanziaria più modesta del mondo profit, che spinge quindi le organizzazioni ad assumere modalità gestionali che puntino all’efficienza oltre che all’efficacia.
Sempre l’Istat dichiara che le organizzazioni non profit italiane sono finanziate per l’85,5% da privati, le restanti dal pubblico. Quanto è importante questo tipo di entrata? Tanto, perché gli introiti privati sono lo strumento attraverso il quale le organizzazioni possono rendersi autonome dal settore pubblico e, quindi, dalla politica. È uno dei dibattiti più accesi in Germania, dove diverse associazioni per l’ambiente che si sono sempre dichiarate per statuto autonome, hanno invece ricevuto negli anni importanti donazioni da parte dello Stato.
Dagli anni Ottanta i servizi sociali, socio-sanitari ed educativi sono gestiti sempre meno dallo Stato e sempre più affidati a enti esterni, in primis alle cooperative. Ciò può avvenire attraverso concessioni che prendono il nome di convenzioni, accreditamenti oppure appalti. Per ognuno di questi servizi è fissato un corrispettivo personale e diurno che viene pagato ai soggetti gestori. Da questo sistema escono i famosi 35 euro al giorno a migrante accolto, numeri che la politica spesso confonde per indignare l’elettorato; è il caso di Matteo Salvini che parlò delle case famiglia che prendono 400 euro al giorno, quando in realtà ne prendono in media 100.
I lavoratori del sociale: professionisti o volontari?
L’ultimo Censimento permanente delle Istituzioni non profit a cura dell’Istat (il prossimo partirà nel 2020) dichiara che in Italia nel 2016 vi erano 336.275 organizzazioni non profit, l’11% in più rispetto al 2011. Le persone impegnate in attività di volontariato sono invece 5,5 milioni. Ma le organizzazioni non profit non si compongono solo di volontari e vedono impiegati ben 844.775 lavoratori, in maggioranza donne.
Se fino a qualche tempo fa i manager curavano la gestione delle associazioni o delle imprese sociali da autodidatti, oggi la loro competenza è sempre più spesso radicata su una solida base formativa: le università da anni formano manager per il non profit con specifici corsi di laurea. Ruoli e responsabilità sono sempre più importanti in un mondo complesso nel quale il dilettantismo non paga. Gli approcci autodidatti devono essere sempre più accompagnati da competenze sofisticate, sia a livello esperienziale sia accademico.
Ecco perché un/una giovane manager si avvicina a un’organizzazione non profit: perché esse nascono sì dai cittadini, ma si evolvono e diventano, nella maggior parte dei casi, professioniste del loro settore. Un “mestiere nell’umanità” che coniuga capacità e valori delle persone, e mette le basi per la crescita sociale e civile della comunità.
È giusto quindi puntare il dito contro chi lavora nel non profit? No. Puntare il dito contro una persona significa rinnegare la professionalità, i percorsi, l’impegno di tutti. Il “mestiere nell’umanità” è un lavoro per certi versi nuovo e che fino a pochi decenni fa non esisteva.
Forse è anche per questo, per la sua relativa novità, che ancora si fatica a dare al lavoro nel non profit la stessa dignità del lavoro nel pubblico o nel profit. Quelli che i media raccontano come “i dipendenti dell’azienda” diventano magicamente “i volontari dell’Ong” quando si parla di non profit, senza nemmeno verificare che si tratti effettivamente di volontari e non di dipendenti, o comunque di professionisti che fanno il loro lavoro.
Ascoltiamo la voce del non profit e dei suoi operatori
Chi è abituato, dalla trincea di una tastiera o nella confusione di una massa a un comizio, a puntare il dito contro chi lavora nelle organizzazioni non profit, andrebbe invitato ad ascoltare chi nel non profit ci mette la faccia ogni giorno: storie di passione, di sfide quotidiane, di tante vittorie, di grandi fatiche. Storie di un lavoro, professionale o volontario, che spesso ha a che fare con le persone, e lavorare con le persone è la cosa più difficile e meravigliosa che possa capitare.
Un lavoro che richiede grande equilibrio, il giusto bilanciamento tra emotività e distanza, la capacità di lasciarsi coinvolgere senza farsi sconvolgere. Offre al tempo stesso la possibilità di leggere dentro le storie delle persone i grandi temi del nostro tempo. Di conoscere da vicino i protagonisti di fatti e fenomeni di cui leggiamo distrattamente nelle pagine di cronaca o di cui discutiamo in casa, al bar, sui social network.
Quanti di coloro che parlano di questi temi possono dire di conoscere bene, di aver guardato davvero negli occhi una persona che ha vissuto l’esperienza della migrazione? O della violenza domestica, della dipendenza, della malattia, della povertà, della periferia?
È un bacino di conoscenza ed esperienza immenso, che sarebbe ora di riconoscere, rispettare, ascoltare. Comincino le organizzazioni non profit e i loro operatori, a comunicarlo sempre di più e sempre meglio; evitino politici e operatori dei media di ignorarlo, strumentalizzarlo e svilirlo per il triste premio di una visibilità volubile, che non resterà.
Luca de Marchi ha realizzato questo articolo per Fondazione Arché nell'ambito della collaborazione della fondazione con il blog collettivo Le Nius nato dalla volontà di proporre approfondimenti su temi protagonisti del dibattito pubblico.
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