Formazione
Statali o private: la scuola a rischio omologazione
Il presidente di Indire osserva che: "L'errore che spesso si commette è quello di voler per forza estendere le stesse regole che valgono per le scuole statali alle altre realtà. Stessi orari, stessi libri di testo: è pura folia"
A fianco del sistema scolastico statale opera dal secolo scorso una rete, spesso sommersa e certamente poco conosciuta, di scuole di formazione professionale gestite in genere da associazioni, enti ecclesiastici o, come nel caso dei Salesiani, da ordini religiosi che hanno nella loro missione proprio l’educazione. Non hanno niente a che vedere con i numerosi “diplomifici” che prosperano in tutte le regioni italiane e che garantiscono a studenti svogliati ma ricchi di raggiungere il diploma attraverso percorsi semplificati.
Queste scuole raccolgono invece gli studenti che il sistema scolastico respinge, quelli che non riescono ad adattarsi, gli immigrati e molti disabili. Per loro don Milani aveva aperto una scuola. Non una scuola qualunque. Nella famosa Lettera ad una professoressa il parroco esiliato in una chiesa di campagna del Mugello, denunciava l’ingiustizia di un modello scolastico costruito per una precisa classe sociale ed estraneo o troppo complesso per tutte le altre. Erano gli anni del dopoguerra e don Milani apparteneva ad una generazione di sacerdoti colti, che sceglievano di dedicarsi ai ragazzi diseredati, quelli senza “ascensore sociale”.
Spesso uomini provenienti da classi sociale agiate, certamente dotati di strumenti culturali raffinati. La scelta di dedicarsi al mondo della povertà è dettata dall’esigenza di dare risposte concrete a bisogni primari, dalla consapevolezza che per questa massa di persone non ci sono possibilità di crescita, non ci sono scenari di un futuro migliore dal presente che hanno davanti. E poi tutta la massa di “senza famiglia”.
La prima guerra mondiale aveva decimato una generazione e lasciato orfani in tutto il Paese. Anche attorno a questa drammatica emergenza erano nate tante iniziative che sono state recentemente ricordate dal Papa: Nomadelfia, Barbiana ma anche l’Opera della Madonnina del Grappa di don Facibeni a Firenze. Studiare, aiutare a studiare ma anche costruire scuole per “insegnare un mestiere”, per fornire quelle competenze necessarie a trovare un posto nella società, a conquistare la libertà e la dignità.
Oggi forse quella povertà estrema, quell’abbandono e quell’assenza del “pubblico” che caratterizzò gli anni delle due guerre oggi non esiste più in quelle dimensioni e quindi siamo portati a pensare che la scuola statale sia sufficiente ad accogliere quei soggetti. È stata la scelta di alcune Regioni che hanno puntato, anche per le qualifiche professionali, sugli Istituti professionali statali. La conseguenza è stata che per gli studenti che escono comunque dai percorsi tradizionali non c’è nessuna alternativa. Di fronte però ai dati dell’abbandono, ai dropout, al recente fenomeno dell’immigrazione le Regioni stanno rivedendo queste scelte. Tutto questo nonostante sia ancora forte soprattutto nelle parti sociali la posizione che associa l’uguaglianza alla scuola statale, il pubblico allo stato, in un certo senso il concetto di scuola pubblica alla “omologazione” dei percorsi. Per essere tutti uguali, avere tutti le stesse opportunità dobbiamo tutti frequentare le stesse scuole: quelle statali anzi quelle gestite dallo Stato.
Ma trattare tutti nello stesso modo di fronte a disuguaglianze evidenti non paga. Il risultato sono i dati della dispersione scolastica, sono le difficoltà spesso insuperabili per un modello scolastico rigido ed uguale dalle “Alpi alle Piramidi”. Oggi esistono nuove povertà educative che non sono solo riconducibili come in passato alla condizione sociale. Certo che poi in qualche modo chi ha i mezzi economici un qualche diploma in genere riesce a conseguirlo, grazie proprio a quei diplomifici che prosperano ormai in tutte le aree del Paese.
Le realtà che raccolgono le nuove marginalità sono diffuse su tutto il nostro territorio, non sono molte ma quello che fanno è prezioso. Lavorano con lo stesso spirito che animava i loro fondatori ma in condizioni socio economiche del tutto diverse. L’errore che però si commette è quello di voler per forza estendere le stesse regole che valgono per le scuole statali a queste realtà. Chiedere a queste realtà gli stessi orari, lo stesso programma e magari anche l’adozione degli stessi libri di testo è pura follia.
Il successo di queste scuole dipende invece dalla capacità di svincolarsi dalle rigidità del modello scolastico e di cercare strade nuove sempre però con l’obiettivo di fornire quelle competenze necessarie ad entrare nel mondo del lavoro e a poter esercitare quel diritto di cittadinanza che resta comunque alla base del concetto stesso di educazione. Riescono a sopravvivere perché alle spalle hanno strutture per lo più religiose che sostengono le spese generali e perché vivono del lavoro di tanti volontari. Rispondono ad un bisogno sociale che nei prossimi anni diventerà un’emergenza ma in genere si tende ad ignorarle, diffidenti verso tutto quello che non è statale ed omologato, pensando magari che dietro ci sia una qualche forma di vantaggio economico come avviene per i “diplomifici”.
Ma ci stiamo avviando verso una sempre maggiore complessità che caratterizzerà la generazione degli adolescenti nei prossimi anni: se pensiamo di rispondere a queste emergenze educative con strumenti, strutture, modelli tradizionali avremo delle brutte sorprese.
In apertura il laboratorio di elettronica promosso dalla scuola professionale Galdus di Milano – Foto Galdus
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