Welfare

Benedetto XVI nel “canile” di Rebibbia

«Qui i detenuti sono trattati come animali». Parla il cappellano del carcere che ospiterà il Papa

di Redazione

«Un numero impressionante di detenuti reclusi in condizioni disumane, ecco la fotografia attuale del carcere di Rebibbia. Che immagino sia la stessa di gran parte degli istituti di pena italiani». Non usa giri di parole don Sandro Spriano, 70 anni, da ben 21 cappellano dell’istituto di pena romano, del quale conosce ogni pietra. «Stiamo parlando di un insieme di quattro strutture che scoppiano: una Casa circondariale in cui oggi ci sono 1.730 persone (il 36% stranieri) a fronte di una capienza regolare di 1.100, le 400 donne nella sezione femminile, gli altrettanti uomini nella Casa di reclusione e i 30 tossicodipendenti nella terza casa», prosegue il religioso, «è una situazione che la gente comune non vuole immaginare, ma io dico loro: vi impressionate per le dure condizioni di certi canili? Sappiate che qui è peggio». Un biglietto da visita presentato anche a Papa Benedetto XVI durante la sua visita pastorale alla Chiesa ristretta di Rebibbia (di fronte ad almeno 300 detenuti, e senza alcun incontro con le autorità) domenica 18 dicembre 2011.
«Il sovraffollamento fa esplodere i problemi veri del carcere», sottolinea don Spriano, in primo luogo il fatto che oggi «dietro le sbarre ci sono tutte le categorie di poveri»: i nullatenenti ma anche gli indifesi, i deboli, gli infermi, i malati di mente, i tossici. Persone che hanno commesso un reato, certo, ma che dovrebbero espiare la loro colpa con pene alternative, anziché venire considerati esseri di un’altra specie». E fa impressione pensare che qui il 50% dei reclusi è imputato in attesa di sentenza e quindi non ancora condannato. «Per non parlare poi di quando uno esce: la pena vera inizia in quel momento, quanto tutte le porte della società, a cominciare dal lavoro, sono chiuse», sentenzia il cappellano, la cui missione pastorale risulta completamente stravolta: «Prima di parlare di Gesù devo tamponare l’emergenza quotidiana di persone che sono sotto la soglia minima di dignità», ammette, «si corre ogni giorno per portare loro abbigliamenti, viveri, e le tante sigarette che servono come un antidoto all’autolesionismo. Perché quando una persona non ce la fa più si taglia, se la prende con il proprio corpo, che diventa una merce di scambio, un veicolo per attirare l’attenzione». Non eventi sporadici, ma situazioni di tutti i giorni. «Ora basta, servono azioni concrete, il Papa e chi può veicolare messaggi alla comunità dovrebbero spendere parole che siano di stimolo per chi ci governa, per una giustizia più equa».
In particolare, «noi cristiani dobbiamo ripensare il concetto di giustizia, che deve essere riparativa, non vendicativa, altrimenti si va contro il Vangelo e l’umanità», dice don Spriano. Che, come primo vero intervento per cambiare le cose, propone l’amnistia: «È uno strumento a breve termine per dare respiro al sistema, ma soprattutto per non lasciare nel totale abbandono chi è dentro oggi». Tutto questo «in attesa di una riforma seria, che deve arrivare al più presto».

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