Non profit
La mensa che sfama i nuovi aquilani
Quadruplicati i coperti del refettorio dei poveri
di Redazione
La vecchia struttura aveva 50 posti. Oggi ne ha quasi 200. Molti degli avventori hanno lavorato nel progetto Case. Ma dopo hanno scelto di rimanere. Ecco perché In Piazza d’Armi, dove sorgeva una delle tendopoli più grandi dell’Aquila, abitata per lo più da immigrati, le tende non ci sono più. Al loro posto sorge un’immensa struttura. Una lapide affissa ad un altissimo obelisco di legno recita «Chiesa San Bernardino in piazza d’Armi». Ho appuntamento con Pierino Giorgi, la persona che gestisce l’impianto. Raggiungendo l’ingresso posteriore mi rendo conto che la chiesa è solo una piccola parte di una costruzione monumentale, strutturata su due livelli. Giorgi è un tipico aquilano. Un volto duro ma bonario, senza capelli ma incastonato in una barba ispida in stile francescano. Saluta calorosamente e mi strizza la mano in una stretta d’acciaio. Si vede che è uno che si è sempre dato da fare. «Benvenuto, vieni ti faccio strada». Mi porta nella pancia della costruzione, in un posto tranquillo per parlare, indicandomi ad ogni passo la bellezza dei locali curati in ogni dettaglio. Arriva subito al dunque, Giorgi: «In questo momento sei all’interno della prima proposta sociale del post sisma aquilano». Qui è stato dato spazio a molte realtà, ma il fiore all’occhiello è la Mensa Celestiniana. «Siamo molto orgogliosi della nostra mensa dei poveri». Esisteva già, nella vecchia sede di via dei Giardini, al limite della zona rossa. «Avevamo 50 posti prima e venivano per lo più aquilani in difficoltà».
Dopo il terremoto è cambiato tutto. «Oggi i posti sono quasi 200. Facciamo ogni giorno circa 120 coperti ma gli avventori non sono più quelli di una volta, adesso aiutiamo i nuovi poveri aquilani». È ora di pranzo. Gli immigrati sono tanti. Nord africani, albanesi e romeni. Pochi gli italiani, quasi nessuno dell’Aquila. La cosa che salta subito agli occhi, nonostante l’evidente stato di indigenza, è che non si tratta di clochard. «Qui quasi tutti lavoravano, avevano una vita normale», sottolinea Giorgi. È per questo che non si vogliono far fotografare, si vergognano. Provo a fare una foto panoramica da lontano. All’istante Gimmi, albanese di 45 anni, si alza e a muso duro mi intima di posare la macchina. Non oppongo resistenza. Provo ad avvicinare anche gli altri. Quasi tutti si voltano di spalle, o mi fanno cenno di andarmene con la mano. Mi immedesimo, li capisco. Non insisto. Mi avvicino al bancone attrezzato dove lavorano i volontari, in tutto 56, che si alternano in turni da 8 persone. Salvatore, di Catania, comincia a parlare: «Ho lavorato all’emergenza post sisma a Paganica. Oggi vivo in un camper, non ho lavoro e sono ridotto a venire qui». È una delle condizioni più comuni. La maggior parte di loro ha lavorato nel cantiere più grande d’Europa, quello del progetto Case. In molti hanno pensato di rimanere anche per la ricostruzione. Ma sono rimasti a mani vuote.
Un uomo in fondo alla sala comincia ad agitarsi. Si chiama Antonio Miliani. È di Rimini, ha 78 anni, una moglie, tre figli. È un imprenditore. Trattiene a stento le lacrime. «Non so se sia burocrazia o mafia. In ogni caso alcuni hanno anche 20 commesse e altri nessuna, come me». Non si trattiene più. Piange. «Vivo in un camion. Rimango qui perché sono convinto che se trovo un lavoro mi ritiro su. Devo recuperare un po’ di soldi. Anche solo 100mila euro. Sennò mi tocca fare il barbone anche a casa». Ora capisco cosa intendeva dirmi Giorgi quando spiegava che «quando abbiamo presentato il progetto avevamo in mente problematiche nuove, nuove povertà». La struttura in tutto è costata 2,5 milioni di euro, e «se avessimo dovuto ristrutturare la sede storica ne avremmo spesi almeno il doppio». L’unico neo è la natura del progetto. «È un complesso definito provvisorio», racconta Giorgi scuro in volto, «quando sarà ristabilita la normalità verrà smontato e demolito. Per noi è assurdo e ci stiamo già battendo per renderlo definitivo. Ce n’è bisogno».
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