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Eccecenia

E' terra caparbia questa regione del Caucaso oggi in guerra con Putin. Il suo rapporto con la grande Russia non é mai stato tranquillo. (di Cristina Moroni)

di Redazione

Nelle opere degli scrittori russi il Caucaso e i popoli che lo abitano sono presenti da sempre come un polo di grande fascino e mistero. Pur geograficamente vicina, questa regione rappresenta nella letteratura russa il rimando a una vita completamente diversa, di incomparabile intensità e verità, inaccessibile al più civilizzato russo. Il romantico paesaggio caucasico, con le sue vette, le valli scoscese, i torrenti impetuosi, ritorna spesso, in questo senso, in contrasto con la vasta, indifferenziata pianura russa, vista come grigia e monotona. è notevole che l?odio per i russi, registrato fin dall?inizio come tratto distintivo delle popolazioni caucasiche e dei ceceni in particolare, sia dipinto nel contesto di caratteri feroci, ma leali e coraggiosi, non privi di una selvaggia attrattiva. Puskin Cominciamo da Puskin, che anche in questo campo fissa il modello da cui gli scrittori successivi non potranno prescindere. Puskin è stato nel Caucaso nel 1820, al servizio di un generale dell?esercito russo, in un periodo, dunque, in cui la conquista di questi territori non è ancora completata (lo sarà in modo definitivo solo verso la metà del secolo) e ispirato da questa esperienza scrive il poema Il prigioniero del Caucaso. In esso, oltre a diverse descrizioni della vita primitiva e guerresca di queste popolazioni, troviamo anche una sorta di canzone popolare dedicata alla ?minaccia cecena? (si noti che qui il cosacco è visto come il soldato russo per antonomasia). Fugge nel fiume l?onda fragorosa; tra le montagne è notturno silenzio; stanco il cosacco s?è assopito, appoggiato alla lancia d?acciaio. Non dormire, cosacco: nella notturna tenebra: Di là dal fiume va il ceceno. Voga il cosacco sulla barca traendo per il fondo del fiume le sue reti. Cosacco, annegherai nel fiume, come annegano i piccoli fanciulli bagnandosi nell?ora calda: di là dal fiume va il ceceno. Sulla riva delle recondite acque ricche comunità fioriscono; giocondo balla il coro. Fuggite, russe cantatrici, correte, belle, a casa: di là dal fiume va il ceceno. Lermontov Anche Michail Lermontov, un altro grande poeta russo dell?Ottocento, trascorre diversi periodi della sua breve vita nel Caucaso (anche come confinato) e lega molta della sua poesia alle atmosfere romantiche e cupe della Cecenia. In particolare dedica il poema Ismail-bej a un leggendario principe ceceno che così inquadra. Passan due anni, sempre arde la guerra; dello sterile Caucaso le genti si nutrono d?inganno e di rapina; di caldo giorno o di brumosa notte, tremendo ai russi è l?ardimento loro. Cieca vendetta e amore della patria pare abbiano i fratelli conciliato; ove fugga nemico e sangue coli son la mano e la spada di Ismail. E così descrive la vita del popolo ceceno: Selvagge son le genti in quelle gole, loro è dio libertà, legge la guerra; crescono tra segreti esse misfatti ed opere crudeli e singolari. Là nella culla i canti delle madri col nome russo atterriscono i bimbi, là ferire il nemico non è colpa; fedele è l?amicizia, più fedele la vendetta; per bene bene, e sangue per sangue, e l?odio è, come amore, immenso. Tolstoj Arriviamo infine a Tolstoj e ai primissimi anni del Novecento. Lev Tolstoj aveva prestato servizio nel Caucaso, ventitreenne, nel 1851 e quell?esperienza gli aveva ispirato già allora diverse opere, ma a distanza di cinquant?anni torna a interessarsi alla figura di Chadzi-Murat, valoroso condottiero ceceno le cui gesta erano già leggendarie. Nei decenni precedenti Tolstoj ha formulato una critica sempre più radicale alla vita della società russa, stupida, futile e triviale, e qui, in queste pagine a lungo meditate e riscritte, indica nel vecchio guerriero ceceno un altro modo di essere, più potente e più felice, che ha come unica legge la forza della vita. Da Chadzi-Murat leggiamo il capitolo XVII, una descrizione impressionante (anche per attualità) del villaggio ceceno distrutto e della reazione dei suoi abitanti. Tolstoj, con il suo stile perfetto, supera l?esotismo e il colore presenti negli altri esempi citati; risaltano così ancor più potentemente altri elementi, eterni e universali: il dolore, la morte, il lavoro dell?uomo (che è dura fatica, ma anche la tenera cura cui allude la citazione, così delicata in questo contesto, degli albicocchi e dei ciliegi), l?odio. L?aul devastato dall?incursione era lo stesso in cui Chadzi-Murat aveva trascorso la notte prima di arrendersi ai russi. Sado, presso cui si era fermato Chadzi-Murat, aveva riparato con la famiglia sui monti, mentre i russi raggiungevano l?aul. Quando tornò all?aul, trovò la propria saklja distrutta: il tetto era stato sfondato, la porta e le travi del balconcino di legno bruciate e l?interno lordato. E il corpo del figlio, il bel fanciullo dagli occhi luminosi che aveva fissato con il suo sguardo rapito Chadzi-Murat, era stato portato alla moschea su un cavallo coperto da una burka. Era stato trafitto alla schiena da una baionetta. La donna dall?aria fiera che aveva servito Chadzi-Murat durante la sua visita, ora, con la camicia strappata sul petto, i vecchi seni avvizziti, scoperti e i capelli sciolti, stava china sul figlio morto e si straziava il viso con le unghie, urlando senza posa. Sado, con una pala e una zappa, era andato con i parenti a scavare una fossa per il figlio. Il vecchio nonno sedeva addossato al muro della saklja in rovina, e intagliava un ramo, guardando fisso davanti a sé. Era appena giunto dall?alveare. Due covoni che si trovavano là erano stati incendiati; erano stati divelti e bruciati anche gli albicocchi e i ciliegi che il vecchio aveva piantato e accudito, ma, soprattutto, erano state bruciate tutte le arnie con le api. Il lamento delle donne risuonava in tutte le case e nelle piazze dove erano stati portati altri due corpi. I bimbi più piccini urlavano insieme alle madri. E si lamentava anche il bestiame affamato cui non v?era nulla da dare. I bimbi più grandi non giocavano, ma fissavano gli adulti con occhi spaventati. La fontana era stata intorbidata in modo che non vi si potesse più attingere l?acqua. E la moschea era stata profanata, e il mullah e i mutaliman la purificavano. I vecchi si erano riuniti sulla piazza e, accoccolati, esaminavano la situazione. Nessuno parlava di odio nei confronti dei russi. Il sentimento che avvertivano tutti i ceceni, dal più piccolo al più adulto, era più forte dell?odio. Non era odio, ma la convinzione che quei cani dei russi non fossero esseri umani, ed erano tali il disgusto, il ribrezzo, e l?incapacità di comprendere l?assurda crudeltà di quegli esseri, che il desiderio di annientarli, come si annientano topi, ragni velenosi e lupi, appariva loro un sentimento del tutto naturale, come il desiderio di conservazione. Agli abitanti non restava scelta: o rimanere sul posto e ricostruire con terribili sforzi tutto ciò che con grande fatica era stato edificato per poi finire così facilmente e assurdamente distrutto, attendendo a ogni istante che accadesse di nuovo o, contravvenendo alla legge religiosa e al senso di disgusto e di ribrezzo per i russi, assoggettarsi a loro. I vecchi pregarono e quindi decisero all?unanimità di inviare dei messaggeri da Samil? per chiedere il suo aiuto e si diedero a ricostruire ciò che era stato distrutto. di Cristina Moroni


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