Dal 24 febbraio 2022 il suono delle sirene in Ucraina non ha mai smesso di riempire l’aria. La guerra ha reso tutti scoperti e fragili, ma per chi fragile, anziano o disabile lo era anche prima, il conflitto è ancora più doloroso
Lyudmila se ne sta appoggiata al muro e aspetta con le mani unite e gli occhi pronti. La parete è quella dell’ingresso di un centro per sfollati interni della città di Zaporizhzhia, a 30 chilometri dal fronte dove la battaglia impazza. Ha un vestito lungo, grigio scuro, con una stampa dai richiami viola. La testa coperta da un foulard chiaro annodato dietro al collo. L’abito sembra di un tessuto pesante. L’abito è pesante. Ma fuori fa caldo, ci sono trenta gradi. Lyudmila da giovane voleva visitare l’Italia, e un po’ piange un po’ sorride. È scappata otto mesi fa da Berdyansk una città portuale dell’Ucraina sud-orientale, che si trova sempre nell’oblast di Zaporizhzhia, sulla costa settentrionale del Mar d’Azov, oggi il comune è occupato dalle forze armate russe. Lyudmila ha 86 anni, se ne sta appoggiata al muro e aspetta – con le mani unite e gli occhi pronti – di essere guardata per sciogliere le dita delle mani intrecciate tra loro e creare un nuovo intreccio ancora con le mani di un’altra persona. Aspetta che suo figlio disabile, sfollato come lei, e che ora vive per strada, si decida a raggiungerla. «Vieni nel centro», gli dice. Ma lui nel centro non ci va. Aspetta che questo limbo di paura e solitudine si dissolva perché «la cosa più importante è avere la pace, non la guerra», racconta. La guerra è anche questa cosa qua: una donna sola, anziana, appoggiata al muro mentre aspetta con le mani unite e gli occhi pronti. Ucraina, questa è la guerra dei fragili.
Giorno di guerra 157
Giorno di guerra 157. Il suono dell’allarme antiaereo, dal 24 febbraio 2022, in Ucraina non ha mai smesso di riempire l’aria e di obbligare gli occhi, come reazione istintiva e umana, a guardare il cielo. Di giorno e di notte, soprattutto di notte, quando la guerra si inzuppa di oscurità. Le sirene rimbombano nelle città degli oblast che probabilmente saranno colpite dai missili, o dai detriti dei missili, quando e se la contraerea ucraina riesce ad abbatterli. Le sirene suonano da Nord a Sud, da Ovest ad Est, soprattutto ad Est. La parte del Paese che fin dall’inizio del conflitto è stata più attaccata. Suonano negli Oblast di Charkiv, Dnipro, di Zaporizhzhia, la regione dove oggi si vive con lo spettro dell’esplosione della centrale nucleare. La paura che questo accada si allarga a macchia d’olio in tutto il Paese e in quelli confinanti. Le sirene suonano nella regione di Mykolaiv, di Cherson, e ancora di più in quelle di Donestck e Luganks, nel Donbass.
Che la forza sia con te
Le sirene non rimbombano solo dai trasmettitori delle città. Ma anche dai cellulari tramite l’applicazione Air Alert. Quella che ti avvisa del possibile pericolo, da quando potenzialmente un missile potrebbe cadere in quella regione e quando l’allarme rientra. I missili sono piovuti dentro le città, i comuni più piccoli, i villaggi. Dentro le case delle persone, sulle scuole, sugli ospedali, su tutte quelle infrastrutture civili che niente dovrebbero avere a che fare con la guerra. L’applicazione è stata scaricata milioni e milioni di volte. Il suono della sirena è accompagnato da questa frase “Pericolo missilistico. Andare al rifugio” e quando l’allarme rientra, invece, finisce con questa: “Che la forza sia con te”. Dice proprio così: “che la forza sia con te”. A dare la voce al messaggio registrato è stato Mark Hamill, che nella saga del film Star Wars ha interpretato Luke Skywalker. E qui la forza ha la forma dell’attaccamento alle cose della vita di tutti i giorni.
Gli allarmi come sveglie
L’allarme suona ed è istintivo il gesto di allungare la mano verso il cellulare e silenziarlo. Non è un gesto sconosciuto, inusuale. Il corpo riproduce gli stessi movimenti che inconsapevolmente e ancora assonnati ripetiamo la mattina per rimandare la sveglia. Solo che questa è una sveglia quotidiana, continua, lunga tutto il giorno e tutta la notte. Gli ucraini si sono abituati alle sirene, ma quel suono lì ci ricorda, anche laddove le città vogliono riprendersi la quotidianità, che questo è un Paese in guerra.
Un Paese dove però a tutti costi le persone vogliono vivere perché non basta sopravvivere. E quindi le città di giorno imitano una vita normale: gli uffici, i ristoranti, i mezzi di trasporto, gli amici, gli incontri. Una quotidianità straordinaria a cui le persone si aggrappano. «Qui la chiamano “War life balance”», spiega Irene Bardazzi, operatrice umanitaria dell’organizzazione non governativa Intersos, che vive da diversi mesi nel Paese. «Le persone, soprattutto i giovani, provano a modellare la vita sulla guerra. Il rischio zero non esiste, ma si prova a limitarlo». Intersos è presente in Ucraina fin dalla primissime settimane del conflitto: dalle distribuzioni di beni essenziali, alla protezione. Dall’assistenza medica alla tutela dei diritti. Oggi l’organizzazione è operativa a Leopoli, Vynnitsia, Odessa e Poltava e anche nelle regioni di Dnipro, Charkiv, Zaporizhzhia, Donestsk e Mykolaiv. Sette milioni di ucraini sono rifugiati in altri Paesi, oltre sei sono sfollati interni, quasi 18 milioni di persone qui hanno bisogno di assistenza umanitaria. In 500 giorni di guerra le vittime civili nel Paese sono state 9mila, tra cui mezzo migliaio di bambini: è la stima dell’ufficio dell’alto commissario Onu per i diritti umani. Ma la guerra è uguale per tutti? No, la guerra non è uguale per tutti.
La guerra non è uguale per tutti
La guerra ha reso tutti scoperti e fragili, ma per chi fragile lo era anche prima, il conflitto è più doloroso ancora. Vasyl ha 29 anni. Dieci anni fa, dopo un tuffo, si è fratturato la colonna vertebrale, da allora non cammina più e non riesce a stendere completamente le mani. Vive con la madre Iryna e suo padre Gennadiy al sesto piano di una casa popolare a Kamianske, un comune di periferia dell’oblast di Dnipro. Senza l’aiuto dei genitori Vasyl non può muoversi. Un letto, sul letto un vassoio, sul vassoio un tablet: i suoi occhi sul mondo. Era campione paralimpico di bocce, partecipava alle gare regionali e cittadine. Oggi meno perché i suoi genitori una macchina per accompagnarlo non ce l’hanno e l’attesa che arrivi un taxi sociale è sempre troppo lunga. È stato il team di assistenti che lavora con Intersos a Dnipro a fornirgli supporto e quando Vasyl ne ha bisogno organizza gli spostamenti per lui e la sua famiglia. Dicevamo che la guerra non è uguale per tutti. Perché quando l’allarme antiaereo suona a Kamianske c’è poco da fare, solo sperare che non colpisca li, perché Vasyl non è come gli altri: lui rimane fermo. Iryna, sua madre, ha paura e Vasyl quella paura la sente. E ha timore di diventare un limite per quella madre amata, così le ripete spesso: «Mamma, basta prenderti cura di me».
“Mio figlio non parla più”
Anche Maksym, 11 anni, vive a Kamianske, con la madre Olga, il papà e un fratello più piccolo che la mattina va a scuola. Lui no, invece. A scuola non ci va. «Capisce tutto, ascolta tutto», racconta la mamma. Maxim ha la sindrome di down. Insieme alla sua famiglia è uno sfollato interno. Nel luglio del 2022 hanno lasciato Kakhovka, nella regione di Cherson. Prima hanno trovato rifugio a Zaporizhzhia, poi a Dnipro e «ora siamo qui».
Olga ha conosciuto Intersos attraverso i social media e ha contattato la helpline che l’ong ha attivato. «Ho chiesto aiuto», racconta. «Ci serviva un medico per Maksym. La sua mascella superiore non teneva il passo con quella inferiore e si era creato un problema al sistema muscolo-scheletrico, una deformità valgo del piede e un accorciamento dei tendini di Achille. Intersos ha trovato degli specialisti per noi e ha accompagnato me e mio figlio alla clinica Rudnev di Dnipro». Se tutto andrà bene Maksym potrà essere sottoposto a riabilitazione presso il Centro San Giovanni di Pidhorodne nel settembre 2023. Intanto Olga, più di tutto, spera una sola cosa: «che Maxim ricominci un po’ a parlare. Prima della guerra qualche progresso l’aveva fatto. Adesso invece non parla più».
Quando suona l’allarme Yulia rimane ferma, insieme alle sue figlie aspetta
Sulla riva sinistra del fiume Dnipro, Yulia, vive con il marito nel villaggio di Kurylivka, distretto di Petrykivka, vicino alla diga del lago artificiale di Kamianske. Lei non ha mai potuto lavorare, neanche prima della guerra. Ha 40 anni e cura le sue figlie. Anastasia di 20 e Lisa di 16. Due giovani donne incatenate nel corpo di bambine che dipendono, in tutto, da lei. Non mangiano da sole, non camminano, non parlano. Nessuno ha mai capito che malattia avessero, genetica si suppone. E il non sapere per Yulia è diventata una condanna.
Prima della guerra Yulia e il marito avevano messo i soldi da parte per andare a Kiev e fare delle analisi. Non per guarire, ma almeno per dare un nome a quel dolore quotidiano e, se è possibile, qualche farmaco per limitare gli spasmi che fanno stare ancora peggio le sue figlie. Ma ora quei soldi non li hanno più: «Abbiamo comprato cibo e medicine». Gli operatori di Intersos l’hanno incontrata la prima volta lo scorso maggio quando la sua casa si è allagata e l’organizzazione gli ha fornito kit di prima necessità e kit energetici. E oggi continua a fornire pannolini e kit igienici. Quando l’allarme suona, se il marito di Yulia non è in casa, neanche lei può fare niente. Sta lì e insieme ad Anastasia e Lisa aspetta. «Come vai avanti Yulia? Dove trovi la forza?». «Non lo so, sono una madre. Non lo so, sono le mie figlie». Yulia è una donna giovane e ha paura della guerra, ma non è ossessionata dalla possibilità che una bomba cada, perché il conflitto non ha spostato l’asse della ragione per cui ogni giorno continua: «Trovare un modo per capire cosa hanno le mie figlie».
Il conflitto esaspera le vulnerabilità
Maksym, Yulia, Lisa, Anastasia, e ancora Olga o Vasyl sono solo alcune delle oltre 23mila persone intercettate dall’organizzazione umanitaria Intersos dall’autunno del 2022 con un progetto, supportato dall’Unione europea, che lavora sulla relazione “uno ad uno” per cercare di rispondere a chi ha bisogno. «Assistenza materiale o di base», racconta Martina Mannocchi, capo programma di Intersos per l’Est dell’Ucraina. «Ma anche consulenza legale o accesso ai servizi medici. Lavoriamo soprattutto con gli sfollati interni e per farlo ci coordiniamo con le associazioni locali, le amministrazioni comunali. Proviamo a consolidare questo meccanismo, questo dialogo necessario, questo ingranaggio comunitario».
C’è stata e c’è ancora su più fronti una grande risposta ai bisogni materiali «ma ora», continua Mannocchi, «c’è grandissimo bisogno anche di supporto psicologico. Quando siamo partiti con questo progetto avevamo chiaro il nostro percorso: concentrarci per aiutare i vulnerabili tra i vulnerabili, persone che non solo subiscono le conseguenze del conflitto ma che hanno visto le loro fragilità letteralmente ingigantirsi con il conflitto. Ci sono i disabili, le donne, gli anziani rimasti soli perché le famiglie sono fuggite, ma loro non volevano lasciare il Paese».
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In un conflitto di così grande ampiezza «il bisogno più immediato è stato assicurare assistenza ai milioni di persone che sono fuggite dalle loro case», spiega Andrea Trevisan, assistente tecnico per l’ufficio umanitario dell’Unione europea, per questo l’iniziativa si è concentrata sugli sfollati interni. «E ora», continua, «l’accesso ai servizi di protezione è indispensabile per le categorie più fragili che hanno bisogno di accedere a indennità, persone che hanno perso i documenti, persone che sono vittime di aggressione o discriminazioni, e che hanno familiari o loro stessi sono portatori di disabilità». Intersos lavora nel Paese con 200 persone, solo 18 sono staff internazionale, la stragrande maggioranza è staff locale perché per parlare alla comunità, bisogna conoscere la comunità, farne parte.
Se in guerra muoiono i diritti
Viktor ha 60 anni e una lesione all’anca, per spostarsi si appoggia ad un bastone. Vive da quattro anni in un rifugio a Pavlohrad, nell’oblast di Dnipropetrovs’k. Vive in uno shelter che è stato aperto 11 anni fa per accogliere alcolisti e tossicodipendenti. Poi dal 2014, dopo l’inizio del conflitto armato tra le forze separatiste del Donbass e le forze governative ucraine, sono iniziati ad arrivare i primi sfolatti interni dall’Est del Paese e la struttura si è trasformato in un luogo di accoglienza per chi aveva bisogno di un posto dove stare. Viktor è uno sfollato interno dal 2014, ed anche un ex alcolista: «sono 5 anni che non bevo». Dovrebbe poter accedere ai servizi sociali e alla pensione, ma non ci riesce. Eppure ha lavorato per tanti anni in una miniera quando era giovane, solo che la miniera si trovava in Donetsk, quindi per lui oggi è impossibile accedere ai registri degli uffici pubblici dell’oblast che certificano il suo lavoro, perché quegli uffici sono chiusi. Sono gli operatori di Intersos che hanno preso in carico il suo caso e provano a risalire ai documenti per dimostrare che lui, come gli altri, ha diritto ad avere una pensione.
I contorni spessi della fragilità
Volodymyr ha 86 anni e sua moglie Svitlana, 83 anni. Vivono in un centro territoriale per anziani e disabili nel villaggio di Troitske, distretto di Pavlohrad, regione di Dnipro. Nel 2014 si sono trasferiti a Pavlohrad da Luhansk. Hanno una figlia, Vlada, 58 anni, che vive a Dnipro, sfollata come loro. Volodymyr e sua moglie hanno bisogno di cure costanti. Svitlana rimane seduta, appoggiata a letto. Ma non cammina bene. Volodymyr lavorava come ingegnere, e l’immagine di quello che era un tempo si scontra con il corpo in cui vive oggi: un corpo fermo, immobile e sdraiato a letto. Volodymyr neanche parla quasi più e ha bisogno di accertamenti medici frequenti, sono gli operatori di Intersos che organizzano i suoi spostamenti da un ospedale all’altro. Vivere la vecchiaia e la malattia da sfollati interni ne ispessisce i contorni della fragilità. «Dovevamo scegliere», dice Svitlana. «Dovevamo scegliere se essere ucraini o sottostare all’occupazione dei russi. Ci manca casa nostra. Aspettiamo la liberazione di tutti i territori. Siamo stanchi della guerra, dobbiamo finirla questa guerra, ma i nostri figli devono essere liberi».
Charkiv, inflessibile e ferita
Arrivare a Pivnichna Saltivka è un viaggio silenzioso e intimo nelle domande che rimangono senza una risposta chiara. “Chissà chi abitava al piano più alto quando il missile è caduto. Chissà se era in casa quando il missile è caduto. Chissà se ha fatto in tempo a scappare o il missile l’ha trovato nella discesa disperata”. Pivnichna Saltivka è un quartiere periferico di Charkiv che è, anzi era, la seconda città più popolosa dell’Ucraina dopo la capitale Kiev. Un quartiere – come ne esistono tanti in Ucraina – dove la geometria delle strade è disegnata da palazzoni alti e grigi, montagne dell’architettura sovietica. Palazzi abitati da centinaia e centinaia di persone che adesso, se non sono un cumulo di macerie, sono pericolanti e pericolosi. Chi non è stato travolto dai missili, in quelle case lì, comunque non ci può più tornare. Nei primi mesi di conflitto Charkiv è diventata un campo di battaglia, è stata tra le prime città a essere raggiunta dai bombardamenti, e alcuni combattimenti terrestri si sono svolti anche dentro le sue strade. Una città così vicina al fronte di guerra e al confine con la Russia che prima cade il missile, poi suona l’allarme. Charkiv come l’interno oblast fanno parte della zona geografica dell’Ucraina a maggioranza russofona. Ciò significa che il russo era la prima lingua. Quando i russi sono entrati erano convinti che l’avrebbero presa in pochi giorni, ma Charkiv è una città inflessibile e questo conflitto insieme alle vite, alle case, sta cancellando anche la lingua, la musica, i libri, la cultura che i due popoli condividevano. E più passa il tempo più allarga le distanze. Perché in guerra succede che alla fine perdono tutti. Questo è un conflitto che ha spaccato le famiglie.
“Surzhyk”
Iryna è appoggiata sul letto di una stanza piccola e rettangolare, la gamba destra scende verso il pavimento, il piede è appena appoggiato a terra. La gamba sinistra invece non ce l’ha, le è stata amputata poco prima dell’inizio del conflitto. Una gamba andata in cancrena perché «non mi hanno curata bene». Ha 62 anni e vive in un centro comunale per sfollati interni di Charkiv insieme ad altre 156 persone, sfollate come lei, tra loro anche 36 bambini. Arrivano da Kupiansk e Dvorichna, ma anche dalla stessa Charkiv e ancora da Tsyrkuny, Mala Danylivka, Zaporizhzhia e Bakhmut. Il centro è un dormitorio per studenti e Iryna ha paura che dal prossimo settembre, quando le scuole riapriranno, lei non saprà più dove andare. Iryna viveva nel villaggio di Hrianykivka, nell’oblast di Charkiv, la sua casa è stata distrutta da una bomba, non esiste più. Come non esiste la vita che conosceva prima. «Avevo una casa normale», dice. «Una cucina e un piccolo giardino». Parla “Surzhyk”, un mix di ucraino e russo, è cresciuta in Siberia, è nata sotto l’Unione sovietica. Il padre faceva l’ingegnere, la madre era una cuoca ucriana: «mi preparava il Boršč, che è rimasto il mio piatto preferito». Iryna non ha ancora accesso ai sostegni statali, le manca una parte di documentazione per averli.
Nel progetto di Intersos, sostenuto dall’Unione europea, uno degli obiettivi – se vogliamo usare la lingua della cooperazione – è quello di offrire assistenza legale a chi ne ha bisogno e da solo non ce la fa. Ma usciamo dai tecnicismi della lingua. Uno non degli obiettivi ma degli impegni del lavoro è far in modo che un diritto sia garantito sempre, anche in guerra. Un impegno è una cosa molto fisica, perché significa che bisogna conoscere ogni singola persona e trovare una risposta a quel bisogno e i bisogni sono tanti ma non si somigliano mai. Myroslava Sushchenko, si fa chiamare Mira, è un avvocata di 30 anni e ha una castacata di capelli nero corvino che le scivolano sulle spalle. «Non avevo mai lavorato nell’umanitario», racconta. Ma per tutti gli ucriani c’è un prima e dopo l’inizio del conflitto. Mira è la protection activity manager del progetto, e cura l’aspetto legale. «Per me è importante per ogni caso riuscire ad ottenere il numero maggiore di informazioni possibili. Le analizzo e cerco le soluzioni: per fare avere i documenti andati persi, per far ottenere il certificato di sfollati interni che ti dà diritto a dei sostegni statali. Certo dopo quella notte di febbraio le cose sono cambiate anche per me, ma ho capito che la mia competenza legale può essere utile».
Giovani senza futuro
Il 24 febbraio 2022, Kostia si è svegliato alle sette del mattino. «Doveva essere una giornata normale», dice. Ma normale è una parola che in Ucraina si è sfilacciata. Aveva il turno di mattina, lavorava in un supermercato in città, a Charkiv. «Non capivo cosa stesse succedendo. Così ho chiamato il mio datore di lavoro. E lui mi ha detto: “Non venire”». Quella mattina insieme ad un amico, e a tanti altri come loro, scende nelle stazioni sotterranee della metropolitana. Kostia ci resterà per giorni, una volta tornato su, la sua vita e quella dell’Ucraina erano cambiate. Nell’oblast di Charkiv il conflitto diventava feroce ma lui da lì non poteva scappare. Kostie è un ragazzo di 26 anni. Magrolino, con i capelli biondi, lunghi, raccolti in una coda bassa. I colori del volto di Kostie sono i colori dell’Est. Non sa se assomiglia alla mamma o al papà, non lo sa perché è cresciuto in un orfanotrofio della città. Kostie non ha i documenti, non ha più il passaporto. Li ha persi, o gli sono stati rubati, non lo sa. «Quando li ho cercati non ho trovato niente». Cosa significa sentirsi senza identità, solo, in un Paese in guerra? I documenti dicono chi sei. E senza documenti non puoi fare niente: muoverti, richeidere lo status di sfollato interno, cercare un lavoro. Kostia vive da maggio 2022 in uno shelter collettivo, un dormitorio grigio di 5 piani, senza ascensore. E non avendo lo status di rifugiato sono i volontari a portargli il cibo o le altre persone che vivono nel rifugio rifugio lo dividono con lui. Gli operatori di Intersos hanno cercato notizie su di lui, sono risaliti alla scuola che ha frequentato e hanno ottenuto le informazioni necessarie per richiedere un passaporto accelerato. “Che speri per il tuo futuro? Sei così giovane”. «Io non ho un piano per il mio futuro. Che piano potrei mai avere. Riesco a vedere solo a tre, quattro mesi di distanza. Ora rivoglio solo il passaporto e un lavoro».
Il fronte vicino e le persone che non se ne vogliono andare
La geografia dell’Ucraina di oggi non la disegnano solo le truppe delle forze militari ucraine e russe che avanzano e arretrano. Non è solo geografia di terre conquistate, perse, liberate. La geografia dell’Ucraina è anche una mappa di queste storie qua. La città di Zaporizhzhia, è capoluogo dell’oblast omonimo, largamente occupato dai russi. A poco più di cento chilometri di distanza dalla città c’è il comune di Enerhodar, dove nasce la più grande centrale nucleare d’Europa e tra le prime dieci al mondo, oggi controllata dai russi. L’agenzia internazionale per l’energia atomica-Aiea ha confermato di aver visto mine direzionali antiuomo alla periferia del sito. Mentre Mosca continua a impedire l’ispezione ai tetti dei reattori e nella sala turbine.
Stando a un censimento del 2020 in tutto l’oblast vivevano circa 1,6 milioni di persone. Difficile adesso capire quante ne siano rimaste. C’è chi vive nei territori occupati. Qualcuno ha lasciato la regione o il Paese, altri ancora hanno deciso di vivere come sfollati interni a Zaporizhzhia per non stare troppo lontani dalle loro case e per ritornarci, se quella casa esisterà ancora, alla fine della guerra. Qui Intersos lavora con l’organizzazione umanitaria Vostok-Sos. Una ong locale nata come iniziativa civile volontaria nel 2014 e che da allora fornisce aiuti umanitari, primo soccorso psicologico, e assistenza legale. Iryna Victorina ha 50 anni, è una donna giovane ma prosciugata in viso. Vive in uno shelter collettivo a Zaporizhzhia città. È scappata da Berdiansk, la località era famosa per i centri di benessere con i bagni di fango. Una città dove prima della guerra vivevano 115 mila persone e che è stata occupata quasi subito dalle forze russe. «Prima di quel febbraio mi prendevo cura della casa e di mia madre, malata di diabete», racconta. «D’inverno in città non ci sono i turisti, quindi c’è meno lavoro. Dopo quel febbraio ho capito che non c’era niente da fare», dice. «O niente che io potessi fare. La guerra ha reso tutto difficile e non potevo immaginare quello che sarebbe successo. Non so cosa aspettarmi dal futuro, spero che la guerra finisca il prima possibile, troppi bambini e molte persone sono sotto il fuoco. Questo è un sogno orribile, mi voglio svegliare e voglio dimenticare. Mi manca la mia casa, ma i russi sono entrati e ci hanno messo dentro le loro famiglie. Non mi aspettavo che tutta questa gente morisse». Anche la mamma di Iryna è morta: aveva bisogno di medicine, ma le medicine non si trovavano più.
Le foto di questo servizio sono dell’autrice.
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