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La Pasqua bassa, o l’innocenza che ci mancava
Dall'Abruzzo un romanzo che segna
di Redazione

Antonio Del Giudice ha diretto il quotidiano abruzzese. Ora si rivela narratore. Raccontando dei “vinti” Figurarsi, in un testo della letteratura contemporanea, uno spazio per l’innocenza, quando è sempre più facile indulgere alle tinte forti di generi da milioni di copie. Figurarsi una storia semplice, fra tante viziate dall’artificio di un’autoreferenzialità diffusa. Figurarsi finalmente La Pasqua bassa (San Paolo, pp. 165, euro 14), il romanzo di esordio di Antonio Del Giudice (60 anni, pugliese di Andria, per quasi 40 anni nei giornali con incarichi vari, da cronista a notista a direttore. Al suo attivo ha un libro-intervista con Alex Zanotelli).
La festività primaverile arrivata in anticipo, a marzo, secondo un’antica superstizione pagana rappresenta una piccola insidia nascosta nel calendario, è foriera di eventi funesti.
Un lutto è insieme il motivo propulsore e il centro di questa storia, che si dipana intorno al personaggio del soldato reduce, falciato dalla raffica di un mitra tedesco sulla strada del ritorno a casa. L’aviere Pinuccio non c’è più e rivive, grazie a un gioco di analessi, attraverso la memoria dolente dei genitori Caterina e Peppino.
Più delle figure umane che agiscono o si lasciano muovere sotto l’effetto dell’evento travolgente, il vero protagonista di questa storia è un’entità astratta dall’effetto molto concreto. Un dolore che qui si manifesta con una forza quasi invasiva e con una forma complementare e doppia: quello rassegnato, fine a se stesso, che sfocia nell’inedia paterna e quello energico, tutto pragmatico della madre, che si accolla la fatica tradizionalmente maschile del lavoro nei campi e l’intera responsabilità familiare, proteggendo Rita, l’unica figlia rimastale.
È sempre lei a dar voce a una dignità altissima, in un luogo particolare del romanzo dove diventa appassionata l’analisi del suo sentimento: «Il dolore si ripiega a poco a poco, si insinua e si disperde nel labirinto dell’anima, prende una sua forma intima, non si affaccia più all’esterno».
Caterina e la sua forza sono il prodotto esemplare di una storia di guerre e lutti. Nel personaggio della mamma tenace si condensa infatti un simbolo estremo e un motivo ricorrente, analogo a quello rappresentato dalle antiche vedove di guerra. Anche perché qui il disagio quotidiano della famiglia si esprime direttamente all’unisono con la grande Storia della seconda guerra mondiale.
I ritmi giornalieri, scanditi dai riti che accompagnano il trascorrere delle stagioni e l’avvicendarsi delle ore liturgiche, ne ricevono una scossa forte, che investe anche i personaggi, secondari ma ben delineati, dei parenti e dei vicini, uniti nel coro solidale di questa storia semplice, ovunque temprata da sentimenti forti capaci di sopportare il disagio e la sofferenza e da sentimenti miti che, grazie allo stile terso della narrazione, sembra promettano di succedersi calmi e inalterati per generazioni.
Se è inevitabile intravedere la parentela dei protagonisti della storia con i poveri solerti di Manzoni e i vinti di Verga, si riconosce anche una matrice comune ad altri scrittori contemporanei del Sud Italia.
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