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Peter Arnett, grande inviato della Cnn nella precedente guerra del Golfo, lancia l’allarme: i comandi militari non permetteranno di raccontare il nuovo conflitto.

di Giampaolo Cerri

Sarà possibile raccontare la guerra o l?informazione dal sempre più probabile conflitto in Iraq sarà ridotta a tragico reality show di cui gli americani hanno saldamente in mano la cabina di regia? A rilanciare il dubbio è Peter Arnett, veterano del primo conflitto iracheno, l?uomo che nel gennaio del 91 riuscì a rimanere a Bagdad, unico giornalista televisivo occidentale, con Alfonso Rojo di El Mundo. L?ex inviato della Cnn racconta, sul Guardian e sul Corriere della sera di domenica 23 febbraio, dapprima l?imbarazzo, poi il fastidio, quindi l?aperta avversione dei comandi militari americani di fronte alle sue corrispondenze che mostravano come la ?guerra chirurgica? di Bush padre fosse in realtà un terribile ossimoro. Il Pentagono aveva deciso infatti di chiudere l?informazione: poche scialbe immagini arrivavano dall?avanzata alleata in Kuwait e poi in Iraq. E per ?documentare? la ferocia degli uomini di Saddam si fece ricorso a una giovane kuwaitiana piangente (che risultò essere la figlia dell?ambasciatore in Usa e non essersi mossa dagli States) e a un cormorano affogato nel greggio, che però arrivava dritto dritto dagli archivi del disastro dell?Amoco Cadiz in Francia. Questa volta gli uomini-media del Pentagono sembrano voler seguire un?altra strategia: un grande pool, 500 reporter accreditati, da scorrazzare fin sulle prime linee ma completamente blindato nei movimenti e nei tempi delle trasmissioni, come ha dichiarato il responsabile media della Navy, Steve Pietropaoli: “I media vorranno le dirette, ma noi dovremo controllarne il timing e chiedere di non trasmettere in questo o quel momento, per non compromettere la sicurezza delle operazioni”. La zero option “Nel Golfo si inventò il news management che prevedeva il disegno di un pezzo di territorio dove i giornalisti avessero una parvenza di autonomia”, ricorda Mimmo Candito, inviato de La Stampa, in procinto di volare a Bagdad. “In Kosovo si è invece arrivati all?espulsione dei reporter dalla zona di guerra. In Iraq avremo, da una parte, una parvenza di informazione, assicurata da pool di giornalisti preparati anche militarmente, dall?altra la realtà dove accadono i fatti da raccontare, dove si farà il possibile perché non vi sia occhio di giornalista”. I militari la chiamano ?zero option?. Candito proverà a sottrarsi al circo Barnum: “Molto è affidato al caso, non c?è una procedura che mi possa garantire. Tutto dipende dalla nostra capacità di inserirci negli spazi che l?apparato inevitabilmente lascerà aperti. Con la consapevolezza che, quando sarà il momento, si farà il possibile per lasciarci al buio”. I giornalisti dei poco allineati Paesi europei saranno ostracizzati? “Accadrà come nel 91”, risponde, “quando chiedevi un?autorizzazione, gli zelanti addetti americani ti rispondevano: ?Dove sono i tuoi soldati??”. Claudio Monici, inviato di Avvenire , c?era anche al tempo dell?altra guerra. Lo raggiungiamo ad Amman, da dove si prepara a passare a Bagdad. “Questa volta la prima linea sarà là, nella capitale”, dice. E pensa che probabilmente di là si riuscirà a scrivere qualcosa: “Chi decide di restare fuori dal pool americano dovrebbe poter raccontare questa guerra”, spiega, “a meno che, come undici anni fa, gli iracheni non decidano di mandar via tutti prima dell?inizio. Ma oggi mi pare che non ne abbiano l?interesse”. Ma le notizie riusciranno a bucare il formidabile apparato massmediologico del Pentagono? “Per quello che sappiamo”, risponde, “il dipartimento della Difesa non ha nessuna intenzione di mostrare un conflitto fatto di traccianti che illuminano la notte di Bagdad, come fu nel 91 o, peggio, di non mostrare niente dell?avanzata in Kuwait. Questa volta vogliono far vedere la guerra, tentando ovviamente di gestire l?informazione. I reporter fuori dalla loro macchina rischieranno di essere silenziati”. Gian Micalessin è uno che ha scelto di fare il free-lance per raccontare questa e altre guerre. Le sue corrispondenze arrivano sulle colonne del Giornale, che non è propriamente l?organo del pacifismo italiano. “Nel 1991 decisi di non partire”, ricorda al satellitare dal Kurdistan iracheno, “perché era impossibile stare fuori dal pool americano e quindi non c?erano margini per raccontare molto”. Questa volta si è ritagliato la sua indipendenza andando a far base nel nord Iraq: “Da qui, a conflitto iniziato, dovrei raggiungere Mossul e seguire tutto di là”. Il problema sarà come fuggire i veti informativi incrociati del raìs e di Bush: “Lo si vede già oggi, in questo teatrino che precede il conflitto: dalla Casa Bianca si annunciano un giorno dopo l?altro prove incontrovertibili ma che non arrivano mai mentre da Bagdad, si comunica l?assenza di armi di distruzione di massa, che in realtà sappiamo tutti che ci sono”. Avvicinarsi alla verità Micalessin è uno di quelli che crede ancora che sia possibile raccontare una guerra: “No, non mi coglie mai il dubbio di fare un lavoro inutile”, confessa, “di raccontare in qualche modo una realtà precostituita. Venire sin qui serve: ti consente di avvicinarti alla verità, anche se non ci arrivi mai. Ti offre una visuale che ti aiuta a capire gli interessi in campo, anche quelli apparentemente secondari come, in questo caso, quelli dell?Iran o della Turchia, o ti fa capire la paura della gente, che ha il terrore di dover sperimentare di nuovo i gas iracheni, come accadde nel 1988”. Toni Capuozzo ha cominciato a raccontare guerre nel 1982: quando gli inglesi andarono a riprendersi le Falklands. Nel 91 era in America, ma di lì a poco sarebbe stato nei Balcani a documentare l?agonia di Sarajevo prima e le bombe su Belgrado poi. “Occhio ai luoghi comuni, attenzione a parlare di ?guerre che non si possono raccontare?”, dice, “occorre chiedersi a cosa serva vedere e far vedere tutto. In Bosnia, dovevamo fare censura noi tante erano le scene di sangue che mandavamo in Italia, eppure la cosa non cambiò l?atteggiamento della gente, dei telespettatori, di fronte a quel conflitto”. È in attesa del visto iracheno ma ha già deciso che non andrà al seguito dei reparti americani: “Si rischia il voyeurismo nel mostrare bocche di fuoco, aerei che decollano”. Andrà nella capitale per il Tg5 “a misurare gli effetti collaterali di questa guerra che, come ogni conflitto, è illusorio pensare che possa essere chirurgica”. Censure e realismo “News management del Pentagono? Diciamo le cose come stanno e parliamo di censura”, commenta Maria Giovanna Maglie del Foglio. Nel 91, spostandosi da Bagdad ad Amman, riuscì a raccontare il conflitto quando ormai sembrava impossibile farlo. “Siamo realisti: il filtro dei militari c?è sempre stato”, dice, “allora come nel Kosovo. Questa volta dipenderà molto dalla lunghezza dell?intervento: più si allungherà e più difficile sarà informare. Ma anche stare a Bagdad non serve: significa, oggi, fare i cani da guardia del regime, passare le veline del raìs. Perché informare non significa solo montare immagini, significa costruirsi una rete di fonti, accedere a notizie riservate: non basta mostrare il monumento di Saddam e le vie della capitale”. La Maglie ci proverà “facendo la spola fra Gerusalemme e Amman e andando a Bagdad con gli americani”. Per conto della Mondadori, per la quale scriverà un libro. Eccola, la nuova frontiera dell?informazione: dall?istant al reality book. Info: Guerra e informazione. Un rapporto difficile, spesso controverso. Cesvi e Vita lo mettono a tema in un convegno che si svolgerà il prossimo 29 marzo a Orvieto. A parlare delle difficoltà di una corretta informazione sui conflitti e sulla capacità di generare memoria dei disastri delle guerre saranno professionisti dei media italiani ma anche molti rappresentanti del mondo delle ong, spesso testimoni di stragi dimenticate. Ci saranno protagonisti dei media, da Enrico Mentana (Tg5), a Paolo Ruffini (RaiTre), da Pierluigi Magnaschi (Ansa) a Milena Gabbanelli (Reporter), da Riccardo Bonacina (Vita) e Sergio Romano (Corriere). A confrontarsi con loro Marco Bertotto (Amnesty), Mario Gay (Cocis), Carlo Gubitosa (Peacelink) e Riccardo Bagnato (Indymedia). Info: www.cesvi.org


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