Mondo

Parla il maggior storico delle penne nere. Io, alpino, contro la guerra

Afghanistan. La missione Nibbio al via. Entro marzo invieremo più di mille uomini al confine con il Pakistan. A combattere.

di Giampaolo Cerri

“E’ la prima operazione di guerra dopo l?ultimo conflitto mondiale”. Ha il pregio della franchezza, Tullio Vidulich, 71 anni, triestino, generale alpino in congedo, già comandante del Quartier generale del IV Corpo d?armata. Schietto come tutti gli Alpini, del resto. Le Penne nere le conosce bene, per averci trascorso gli anni migliori, ma anche per aver curato una completissima Storia degli Alpini (351 pagine, 26 euro), uscita da pochi giorni per le edizioni Panorama di Trento. Non si nasconde dietro i giri di parole, Vidulich, come fanno invece gli alti comandi militari o il ministro Martino, e dice chiaro e tondo che quelli del contingente Nibbio vanno a Khost per combattere. “Andiamo in una zona a rischio, dove sono presenti ancora i talebani, una regione popolata da etnie che mal sopportano la presenza di truppe straniere e quindi sarà necessario avere molta prudenza e renderci conto in fretta con chi abbiamo a che fare”. Combat mission Dal Pentagono del resto l?hanno definita una “combat mission”: “Ed è il giusto termine, anche se il ministro parla di una missione di rafforzamento e difesa della pace”. Il problema è che i nostri mille ?veci e bocia? vanno ad acquartierarsi in una zona che è teatro da mesi di attacchi dei commandos talebani. “Arrivano di notte”, conferma Vidulich, “in genere con i razzi, per poi fuggire nel terreno impervio”. Gli ultimi pasdaran del mullah Omar, sin qui, hanno fatto solo qualche ferito lieve e nulla più, secondo il dipartimento della Difesa americano (DefenseLINK) che ne dà notizia puntualmente. “Sì, ma hanno della piccola artiglieria al seguito e conoscono bene il terreno, caverne comprese, ed è difficile andarli a scovare”, osserva il generale. Saranno addestrati a sufficienza gli Alpini di Nibbio, l?alto ufficiale in congedo ne è convinto: “Ben addestrati, ben equipaggiati”, dice, “e preparati con coscienza”. Anche se vanno a fare i poliziotti lungo il confine pakistano, che non è proprio il loro mestiere. “È vero, c?è una differenza di fondo con il contingente inviato a Kabul, subito dopo la nascita del governo Karzai”, ammette Vidulich, “qui si tratta di contrastare soprattutto il passaggio attraverso le montagne ?da e per? il vicino Stato pakistano”. Chissà se gli Alpini, corpo storicamente legato alla difesa del suolo patrio, dal Carso alle Dolomiti, saranno sufficientemente motivati a fare questo lavoro. L?ufficiale, su questo, non ha dubbi: “L?attaccamento al corpo li motiva e, comunque, c?è un grande senso di solidarietà verso il popolo afghano, perché quel Paese rinasca”. Sullo sfondo di tutta la vicenda, impossibile negarlo, rimane però il rischio perdite. Nelle settimane scorse, la stampa americana ha rivelato che sarebbero state fatte affluire nella base di Comiso migliaia di bare. Rischio perdite Per l?Italia un piccolo shock che ha fatto subito pensare alle Penne nere impegnate a Khowst. “Purtroppo l?organizzazione militare deve mettere in conto di subire perdite”, conferma Vidulich, “non ci sono calcoli precisi, però è evidente che quando si va in zona di guerra, il rischio è connaturato alla missione stessa”. Sulla possibilità che le nostre truppe vengano poi dirottate sull?Iraq, il generale ha qualche dubbio: “Potrebbe essere a conflitto finito, quando si tratterà di garantire la convivenza civile nel Paese”. Anche se la prospettiva della seconda guerra del Golfo non lo allieta affatto. “La penso come il presidente Ciampi”, dice, “prima di un intervento militare è necessario che tutti i tentativi diplomatici siano stati esperiti. Spero che l?attività diplomatica convinca Saddam a disarmare. Anche se, a onor del vero, fino ad oggi non sono state rinvenute armi di distruzione di massa”. E non ha dubbi, il generale, sull?egida di un nostro eventuale impegno in Iraq: “L?iniziativa spetta all?Onu”. Sono tutt?altro che guerrafondai gli Alpini: sempre pronti a fare il loro dovere ma per niente innamorati delle armi. “La retorica del conflitto non ci piace, sappiamo come la guerra sia terribile. 131 anni di storia, fatta anche di battaglie sanguinose, ce lo hanno insegnato”, conferma, “così come sappiamo bene che la pace è una scelta di civiltà”.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA