Cultura

San Romero d’America. l’eroe dei più semplici

30 anni fa l'assassinio del vescovo di San Salvador. Beatificazione vicina

di Redazione

Gli spararono mentre diceva messa. I mandanti non sono mai stati presi. La sua popolarità resta a livelli impressionanti. Basta passare un giorno dov’è sepolto…. da San Salvador
Strade dedicate a lui, monumenti, piazze, centri di studio, scuole, molte scuole di ogni ordine, ed anche una università, l’Università Oscar Romero. Poi libri, a decine. Sugli scaffali delle librerie di San Salvador gli scritti su monsignor Romero occupano uno spazio di privilegio. Ci sono le sue Omelie, raccolte e pubblicate in due tomi dalla Università cattolica José Simeón Cañas, la stessa in cui erano stati assassinati il rettore Ignacio Ellacuria, cinque suoi compagni e due donne di servizio nel novembre del 1989, tutti legati a Romero da rapporti personali. Ben in mostra nelle vetrine del centro c’è anche la biografia scritta dal suo segretario, Jesus Delgado, e il più recente Frammenti per un ritratto, di Maria Lopez Vigil a cui si è aggiunto il volume di Jon Sobrino, gesuita anch’egli, sopravvissuto alla strage dei suoi compagni perché quel giorno si trovava in viaggio in Thailandia per partecipare ad un convegno.

Il pellegrinaggio ininterrotto
I colpevoli di quel massacro sono stati arrestati e condannati. Militari del battaglione antiguerriglia Atlacatl al comando del colonnello Benavides. Invece quelli che hanno armato la mano del killer che il 24 marzo del 1980 si è appostato nel giardino della cappella della Divina Provvidenza e ha sparato un proiettile esplosivo sul vescovo, non sono mai stati portati davanti ad un tribunale. Anche per questo hanno fatto scalpore le dichiarazioni del presidente in carica da pochi mesi, l’ex guerrigliero Mauricio Funes, che ha ammesso formalmente, a nome del governo che presiede, la responsabilità dello Stato nell’omicidio del vescovo.
Fu Arturo Rivera y Damas, salesiano, amico e successore di Romero nell’arcidiocesi di San Salvador, ad iniziare una causa giudiziaria allo Stato salvadoregno davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani per non aver investigato adeguatamente il crimine. Una commissione – la Commissione per la verità, che ha indagato sui crimini commessi nella guerra civile – ha segnalato come autore intenzionale dell’assassinio il fondatore dell’Alleanza repubblicana nazionalista, maggiore Roberto D’Abuisson, morto nel febbraio del 1992.
La legge di amnistia, approvata dopo gli accordi di pace tra il governo e la guerriglia del Farabundo Martí sottoscritti nello stesso anno della morte di D’Abuisson, ha steso un velo di silenzio sull’assassinio del vescovo. Un successivo pronunciamento della Sala costituzionale della Corte suprema ha determinato che l’amnistia non era applicabile a violazioni dei diritti umani. Ed ora il riconoscimento di responsabilità, a sorpresa, da parte del presidente Funes.
A trent’anni dalla morte il vescovo Romero è più vivo che mai. Basta scendere nella cripta della cattedrale metropolitana, nel sottosuolo dell’imponente edificio che domina la piazza vociante di bancarelle e ambulanti, per rendersene conto. Il pellegrinaggio alla tomba è ininterrotto. Davanti alla riproduzione del corpo di Romero, un bronzo di dimensioni naturali, c’è gente che prega ad ogni ora del giorno. È appeso un crocifisso dietro la salma dell’arcivescovo, e una lastra di marmo rosso su cui è incisa una frase: «Sentir con la Iglesia», avere gli stessi sentimenti della Chiesa.
In diversi momenti della giornata, a pochi metri di distanza dalla tomba, si celebra una liturgia della parola in forma assembleare. È una afosa domenica di marzo e ci sono un centinaio di persone sedute. Il diacono designato descrive dei momenti della vita di Romero, gli anni del seminario, l’arrivo a San Salvador. Con pacatezza, senza alcuna foga oratoria. Ad una trentina di metri di distanza dall’adunanza e dal monumento sepolcrale c’è la riproduzione della Madonna di Guadalupe, la celebre morenita messicana di cui monsignor Romero era fervente devoto.
Per i salvadoregni monsignor Romero è già santo. Lo è per Vanesa Rivas, 16 anni compiuti da poco. Lo ricorda per come ne ha sentito parlare in casa sua, una umile famiglia di Chalatenango: un uomo che aveva cura del popolo, che lo difendeva dai violenti che disprezzavano la giustizia. Matilde Contreras ne aveva 22, di anni, quando l’arcivescovo venne assassinato. Ricorda tutto di quel momento. Oggi è maestra e si lamenta che la storia di Romero non sia stata ancora inclusa nei programmi di studio. L’anziana suora ingobbita dagli acciacchi seduta sulla panca viene tutte le domeniche in cattedrale da trent’anni, da quando ha sentito dalle consorelle dell’Addolorata che avevano sparato a monsignore. Spera di ricevere, ancora in vita, la notizia della beatificazione del vescovo.

Esercito e pandillas
Alla tomba di monsignor Romero arrivano scolaresche intere talvolta; ci sono una ventina di ragazzini in questo momento, quindicenni i più. Non l’hanno conosciuto, non erano nati quando il vescovo esercitava il suo ministero pastorale in piena guerra civile. I tempi sono cambiati da allora. L’America centrale è diventata una delle aree più violente del mondo. Terra di pandillas. 79mila persone assassinate negli ultimi sei anni, più morti di quanti ne abbia fatti la guerra civile nel Salvador. Lo dice uno studio delle Nazioni Unite, lo mostra la realtà quotidiana. Si cammina per le strade, ma con molta circospezione.
Nel Salvador le case – e non solo quelle dei benestanti – sono tutte protette da robuste griglie di metallo, i negozi sono presidiati da guardie che ostentano ben in vista le armi. Con l’oscurità le strade si spopolano e la vita notturna della capitale, San Salvador, si riduce ai minimi termini. Anche un presidente di sinistra come Mauricio Funes, eletto nelle liste della vecchia guerriglia del Fronte Farabundo Martí, è intenzionato a usare la mano dura e mandare in strada l’esercito, un provvedimento che neppure il governo di destra che lo ha preceduto aveva avuto il coraggio politico di adottare.
Nella piccola cappella della Divina Provvidenza, la messa vespertina è alle 17, come il giorno dell’assassinio. La celebra Rafael Urrutia, vicario generale di San Salvador, dietro lo stesso altare dove monsignor Romero è crollato di schianto con il calice tra le mani. Urrutia, che è stato ordinato 31 anni fa dallo stesso Romero, ha terminato il suo lavoro di postulatore diocesano della causa.
Gli chiediamo quanto ci sarà ancora da aspettare. Rivela che la Congregazione per la dottrina della fede ha liberato la causa, dopo aver passato al vaglio vita, opera e scritti di monsignor Romero. «Hanno concluso che non c’è nulla che si opponga, che l’ortodossia di monsignor Romero è cattolica e l’ortoprassi conforme alla carità che la Chiesa predica. Ci hanno detto che la causa è passata di nuovo alla Congregazione per le cause dei santi. Speriamo che entri nella tappa finale». Riconosce che non è una causa facile. «La morte martoriarle di Romero non è avvenuta in odio alla fede; è stata provocata da cattolici che credevano di difendere una ideologia e un sistema politico sociale ed economico in questo Paese». Ma è ottimista: «Penso che manchi molto poco».

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