Volontariato

La scuola milanese

Speciale: lezioni di economia civile. Quinta puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione

Dai primi Lumi italiani nasce a Milano la Scuola lombarda, un ceppo culturale che produce pensiero filosofico ma anche giuridico ed economico. Da Verri a Beccaria, da Romagnosi a Cattaneo,nella seconda metà del 700 nascerà una tradizione economico-civile che attinge alle suggestioni di Antonio Muratori sul «Bene della Società» e sulla centralità della persona umana, distinguendosi dal materialismo dei francesi.
E che valorizza la creatività e l?intelligenza, ponendo l?enfasi su formazione ed educazione.

Quinta lezione.Verri, Cattaneo e la ricerca della pubblica felicità

La lezione precedente sulla scuola napoletana si è chiusa col tema della felicità. Ora, passando a Milano, continuiamo lo stesso discorso. Lo studio dei mezzi e delle condizioni per sviluppare la «pubblica felicità» è stato, infatti, il principale pilastro dell?economia civile italiana tra 700 e 800. Per gli economisti classici la pubblica felicità era un sinonimo di economia civile: «Tutti i nostri economisti», scriveva sul finire dell?800, Achille Loria, riportando una tesi di dominio comune nell?Italia del tempo, « si occupano non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica».
La seconda metà del 700 vide, lungo l?intera penisola, una fioritura di trattati che riportavano la «pubblica felicità» nel titolo stesso del libro, e il milanese Pietro Verri sottolineava che «il discorso sulla felicità ha per oggetto un argomento comunissimo, sul quale tanti e tanti hanno scritto».
A Milano, infatti, la «pubblica felicità» divenne il tema centrale della nascente scuola lombarda: Pietro Verri, Cesare Beccaria e poi Gian Domenico Romagnosi e Carlo Cattaneo (per citare solo i più celebri), furono pensatori che fecero della città una delle capitali dell?illuminismo italiano e della tradizione dell?economia civile.
Ma quali significati racchiude l?espressione «pubblica felicità»? Prima di rispondere è necessario sfatare un luogo comune che si incontra spesso nelle storie dell?economia: esse ci raccontano che il tema della pubblica felicità fu un prodotto tipico dell?illuminismo francese, esportato poi in Italia e in tutto il mondo. La realtà dei fatti è invece un?altra: l?espressione «pubblica felicità» compare per la prima volta, e proprio in questi esatti termini, nel titolo di un libro del modenese Ludovico Antonio Muratori: Della pubblica felicità. Nella premessa, ritroviamo la tesi-chiave della tradizione dell?umanesimo civile: l?interesse privato non si risolve naturalmente in pubblica felicità, essendo questa il frutto delle virtù civili: «(…) in noi il desiderio maestro, e padre di tanti altri, è quello del nostro privato bene, della nostra particolare felicità (…) Di sfera più sublime, e di origine più nobile vi è un altro Desiderio, cioè quello del Bene della Società, del Ben Pubblico, o sia della Pubblica Felicità. Nasce il primo dalla natura, quest?altro ha per madre le virtù».

MURATORI,IL PRECURSORE DELL’ENCYCLOPÈDIE
Siamo quindi lontani dal materialismo e dall?edonismo tipico degli autori francesi della felicità (da Helvétius a Maupertuis). La tradizione della «pubblica felicità» va invece considerata una gemmazione tipica dell?umanesimo civile italiano; Muratori scrive il suo Della pubblica felicità nel 1749, qualche anno prima dell?esperienza dell?Encyclopédie e delle sue voci economiche che lanciarono in Francia, e poi in tutto il mondo (celebre l?incipit, The Pursue of Happiness, nella Costituzione degli Stati Uniti del 1776), il tema della felicità pubblica come grande programma culturale e sociale dell?illuminismo. Va inoltre aggiunto che, già nel 1743, Muratori aveva studiato e scritto sull?esperimento sociale delle reductiones dei Gesuiti nel Paraguay, dando al suo libro un titolo di per sé molto eloquente: Cristianesimo felice. Possiamo cioè vedere la riflessione sulla pubblica felicità del 700 come l?approdo di un processo iniziato con l?umanesimo circa il rapporto tra vita civile e felicità, passato attraverso la ?crisi? della letteratura utopica, e poi sfociato nella metà del 700, grazie anche alle mutate situazioni politiche, nel tema della pubblica felicità. Da Muratori in avanti, le varie scuole italiane (la napoletana, la toscana, la veneziana, e soprattutto la milanese) ripresero l?espressione, al punto da diventare lo slogan della nascente scuola italiana di economia civile o, come amava dire Verri, «economia pubblica».

LE GIUSTE LEGGI AL SERVIZIO DELLA CREATIVITÀ
L?aggettivo pubblico che veniva associato a felicità, è molto importante: a differenza dell?uso oggi corrente che lo associa all?intervento dello Stato, in quegli autori dire che la felicità era pubblica significava riconoscere che, diversamente dalla ricchezza, la felicità può essere goduta solo ?con? e ?grazie? agli altri: posso essere ricco anche da solo, ma per essere felice occorre essere almeno in due. Inoltre questa felicità è pubblica perché riguarda non tanto l?individuo in quanto tale ma aveva a che fare con le pre-condizioni istituzionali e strutturali che permettono ai cittadini di sviluppare (o, in assenza, di non sviluppare) la loro felicità individuale: l?economista civile, quindi, non vuole insegnare alle persone l?arte di esser felici, ma indica al governante o al politico le pre-condizioni da assicurare per far sì che ciascuno possa fiorire come persona, o, come diceva Verri, suggerisce i modi «per rimuovere le cause dell?infelicità».
Vista da questa prospettiva la società civile quindi diventa, come dice ancora Verri, il risultato di una «industriosa riunione di forze cospiranti» che fa sì che si raggiunga «il ben essere di ciascuno, il che si risolve nella felicità pubblica, o sia la maggiore felicità possibile divisa colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana» (p. 100).
Verri è il fondatore e il leader della scuola milanese di economia. Nel suo pensiero filosofico ed economico ritroviamo non solo la centralità della pubblica felicità, ma tutti i temi tipici che abbiamo incontrato nella tradizione civile italiana, all?interno dei quali si comincia a sentire anche l?influenza francese (soprattutto Rousseau e Montesquieu): il ruolo delle virtù («la sola virtù può farci godere quel poco di felicità di cui siamo capaci», p. 71), la ricchezza come mezzo e non come fine («le ricchezze ? sono mezzi di avere i beni, e non beni per loro medesime», p. 76), la lode del commercio come momento civilizzante e pacifico («il bisogno spinge l?uomo talvolta alla rapina, talvolta al commercio», p. 130), e la fiducia («la buona fede») considerata come la pre-condizione dello sviluppo dei commerci (p. 154).
In particolare ai milanesi stanno particolarmente a cuore due temi: il ruolo delle giuste leggi per la pubblica felicità, e l?importanza attribuita alla creatività e intelligenza della persona nella creazione del valore dei beni.
Abbiamo già accennato che per Verri non si raggiunge la pubblica felicità senza buone leggi, non stupisce quindi che fu proprio lui l?ispiratore del libro più famoso dell?illuminismo italiano, il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764), che lanciò la tesi rivoluzionaria della non compatibilità tra vita civile e pena di morte: «Non è utile la pena di morte, per l?esempio di atrocità che dà agli uomini? Parmi un assurdo, che le leggi, che sono l?espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l?omicidio, ne commettano uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall?assassinio, ne ordinino uno pubblico». Un?opera, questa, che influenzò molto l?intero movimento illuminista europeo, e che il 30 novembre 1786 fece di Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana, il primo sovrano al mondo ad abolire pena di morte e tortura, perché «quelle cose sono convenienti solo ai popoli barbari».
La convinzione che non si dà economia civile senza leggi proseguì in particolare nel pensiero di un altro milanese, Gian Domenico Romagnosi, che alternò scritti di economia a scritti di diritto. L?«incivilimento» fu lo slogan della sua visione economica e sociale: un buon governo deve puntare non primariamente alla crescita economica ma all?incivilimento del popolo; privilegiare infatti la crescita economica rispetto a quella civile significa produrre necessariamente guasti sociali. Per questo, sempre secondo Romagnosi, è meglio crescere economicamente meno ma tutti assieme, in modo che, grazie anche alle buone leggi, le virtù civili e la fiducia pubblica possano reggere l?impatto del dispiegarsi degli interessi economici.
Non meno interessante e innovativo è il secondo punto tipico della scuola milanese: il ruolo della creatività e dell?intelligenza umane. Già Verri era convinto che non solo la ricchezza ma anche la felicità dipendesse soprattutto dalla creatività che gli individui sviluppano (p. 154). Al governo, quindi, spetta il compito di favorire la felicità consentendo ai cittadini di essere creativi: ecco l?enfasi sulla formazione e sull?educazione che ritroviamo in tutti questi autori. Così, in un periodo di crisi degli antichi atenei (come Pavia), gli illuministi milanesi pongono al centro lo sviluppo delle istituzioni culturali e dell?istruzione popolare.

TUTTO INIZIA CON UN ATTO D’INTELLIGENZA
Nell?800 fu soprattutto Cattaneo a sviluppare un pensiero economico che, criticando gli economisti inglesi, che avevano individuato nei fattori produttivi gli elementi chiave dello sviluppo economico, poneva invece come punto di partenza teorico l?uomo e la sua intelligenza. In un brano di un suo studio del 1859, Frammenti di filosofia civile, leggiamo: «Non v?è lavoro, non v?è capitale, che non cominci con un atto d?intelligenza. Prima d?ogni lavoro, prima d?ogni capitale? è l?intelligenza che comincia l?opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza (p. 58)».
L?enfasi sulla socialità umana, sottolineata soprattutto dalla Scuola napoletana, viene con la milanese coniugata con l?altro pilastro della cultura occidentale, umanistica e cristiana: il valore della persona al centro della società e dell?economia. È la persona che, con la sua creatività e la sua intelligenza, entra in rapporto con gli altri e con le cose, conferendo valore, anche economico, ai beni. L?economia civile aveva tenuto assieme il valore assoluto della persona e il valore, anche questo assoluto, della socialità. Nel suo sviluppo successivo la scienza economica non è più riuscita in questo.
Dopo il 1850, infatti, il pensiero economico (anche per la mediazione di Francesco Ferrara, economista leader della seconda metà dell?800) prese le distanze dalla propria tradizione, considerata nel clima culturale positivista del tempo, troppo poco scientifica perché troppo poco analitica: si volse lo sguardo alla Francia e all?Inghilterra, determinando così un?eclissi che solo oggi sta volgendo al termine.

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