Welfare

Inserimento lavorativo, quell’idea dello psichiatra di Piacenza

di Redazione

Vago per l’Emilia Romagna a parlare di reti per l’inserimento lavorativo di persone con disabilità. L’esordio modenese non è un gran che. Lavorare in rete va bene, ma non ora. Non in tempo di crisi, non c’è tempo da perdere e non ci sono risorse. Oppure: ci abbiamo provato, ma siamo rimasti ai preliminari: conoscenza reciproca, qualche passo in avanti, ma poi? Arenati nella lettura dei bisogni. O a scannarsi sull’architettura organizzativa, sui ruoli, sul chi fa cosa. E, naturalmente, sull’esercizio del potere. Rivaluto le reti gerarchiche e temporanee. Con effetto di trascinamento e incentrate su obiettivi chiari e definiti. E neanche troppo complessi. Ad esempio mi dicono che nel rapporto con le imprese i funzionari dei servizi per l’impiego non sono in grado di dire cosa la persona con disabilità sa fare, mentre sono pieni di certezze rispetto a quello che non sa fare. Chiaro che, su queste basi conoscitive, è davvero difficile fare “collocamento mirato”. E ancora: grossa lamentazione in sala perché Hera, la supermunicipalizzata quotata in Borsa, non è più di tanto sensibile alla creazione di occasioni di lavoro e di inserimento per le persone disabili. Certo è un problema, ma piccola domanda: chi è il proprietario di Hera? Non sono forse gli enti locali? E allora facciamo in modo che nella governance della tecnostruttura si agiscano anche strategie di socialità (altrimenti bruceremo in piazza le cataste di bilanci sociali che immancabilmente ci vengono propinati).
A Reggio il giorno dopo va meglio. Le reti sono stanche perché soffrono in forma acuta di “path dependency”, dipendenza da un percorso tracciato ormai più di un decennio anno fa – dalla legge 68 in poi. Ora queste reti sono in piena crisi di maturità, magari ben oliate nei meccanismi di relazione e nell’architettura ma ferme in attesa di ordini – perdonate la metafora militaresca – che probabilmente non arriveranno mai. Per uscirne serve una salutare iniezione di “lateralità”, qualche intervento o proposta di qualcuno ai margini che riesce più facilmente a togliersi dal solco. Come lo psichiatra (di Piacenza però) che, preso atto dell’avvitamento generale, propone di esplorare altre vie oltre al collocamento mirato, come il supported employment che nei Paesi anglosassoni va forte e che si basa su un insieme di servizi erogati alla persona in situazione, all’interno di contesti lavorativi non protetti. Funzionerà? Non lo so, ma l’aula ha avuto un fremito salutare dopo questo intervento.

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