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Darfur, una pace da spot elettorale

Alla firma della pace ha lavorato la Comunità di Sant'Egidio che dice: «La scadenza del voto ha pesato molto». Rimane l'incognita dei gruppi ribelli esclusi dagli accordi

di Emanuela Citterio

«La guerra in Darfur è finita». A dare l’annuncio è stato il presidente del Sudan Omar Hassan el Bashir, all’indomani dell’intesa firmata il 23 febbraio a Doha, nel Qatar, con il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem), uno dei due principali movimenti antigovernativi in armi dal 2003 nella regione occidentale del Sudan. Il conflitto più seguito dall’opinione pubblica internazionale è quindi arrivato al termine? Quello firmato a Doha è in realtà un pre-accordo, frutto di un anno di lavoro e mediazioni da parte della Lega Araba, rappresentata dal governo del Qatar, e dell’Unione africana. La pace definitiva fra governo sudanese e Jem è programmata per il 15 marzo, ma le incognite e gli interrogativi sul suo reale impatto nel Darfur e nell’intero Sudan sono ancora molti.
A Doha, oltre alle delegazioni istituzionali c’era la Comunità di Sant’Egidio, unica realtà della società civile ammessa ai colloqui, che dal 2004 è in contatto con il Jem e ha partecipato a diversi tentativi messi in atto da Onu e Ua per risolvere la crisi del Darfur. «La vera svolta è avvenuta prima di Doha», dice Vittorio Scelzo, di ritorno dal Qatar. «All’inizio di febbraio c’è stato un incontro fra il presidente del Sudan, el Bashir e quello del Ciad, Idriss Deby. Ad essere mutate sono innanzitutto le relazioni fra questi due governi, che si sono sempre accusati l’un l’altro di appoggiare i ribelli che operano nei rispettivi Paesi e che ora hanno deciso di collaborare. L’accordo con il Jem è anche il riflesso di questo cambiamento».
«La pace in Darfur arriverà prima delle elezioni», aveva detto il presidente sudanese. Della pace ha bisogno el Bashir alla vigilia delle presidenziali di aprile, le prime dall’89, anno in cui è arrivato al potere con un colpo di Stato. Della pace ha bisogno anche Deby, visto che il Ciad andrà alle elezioni legislative il prossimo novembre. « È fuori di dubbio che sul raggiungimento di un accordo hanno pesato le scadenze elettorali», afferma Scelzo, «così come le pressioni internazionali e il braccio di ferro con la Corte penale internazionale (che ha spiccato un mandato d’arresto contro el Bashir per crimini in Darfur, ndr). Siamo consapevoli che il risultato raggiunto in Qatar non sia la soluzione definitiva a tutti i problemi del Darfur, ma è di sicuro un passo avanti». Di parere analogo è monsignor Antonio Menegazzo, amministratore apostolico della diocesi di El Obeid, il cui vasto territorio comprende anche la regione occidentale del Darfur: «È sicuramente un segno positivo verso la pace, ma non basta, occorre trovare il modo di coinvolgere le fazioni rimaste fuori». L’accordo con il Jem non equivale tout court a “pace” per il Darfur, anche perché nella regione operano una ventina di gruppi che si oppongono al governo di Karthoum. L’incognita più grande è lo Sla, l’Esercito di liberazione del Sudan, che controlla ampie aree della regione e che si è tenuto fuori dai colloqui. «Il fatto che non partecipino è preoccupante», riferisce a Vita una fonte della società civile locale, «potrebbe essere segno che i miliziani dello Sla hanno appoggi importanti fuori dal Darfur, tanto da poter andare avanti a contrapporsi a Karthoum». «Per ottenere un risultato stabile, el Bashir dovrà continuare il processo di condivisione delle risorse e del potere con i ribelli, ma soprattutto dovrà includere nei negoziati altri gruppi che non erano presenti all’incontro di Doha», afferma Soud Hikmat, esperto di International Crisis Group in Darfur. Intanto il Qatar ha deciso di “sponsorizzare” la pace con la creazione di una Banca per lo sviluppo del Darfur, che parte con una dotazione iniziale di 2 miliardi di dollari.


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