Famiglia

Velina o velata, è solo questione di stoffa?

Chi si scopre troppo e chi si copre troppo

di Redazione

Da una parte un’emancipazione che in realtà è una gabbia, dall’altra un integralismo che paralizza.
Due identità che si annullano. Ma in mezzo c’è tanta vita…di Lubna Ammoune
«La donna musulmana è più libera della donna occidentale». Ahimé, questa è la tesi di fondo che ho sentito ad alcune conferenze organizzate in occasione della festa della donna. Di supporto all’affermazione seguono citazioni dal Corano sulla parità tra i sessi come: «O uomini, siate consapevoli del vostro dovere nei confronti del vostro Signore, il quale vi creò da un’unica coppia originale, dopo aver creato prima il maschio e poi la femmina, suscitando dalla loro unione un grandissimo numero di uomini e di donne. A chiunque, uomo o donna che sia, si comporti bene e sia credente, daremo come ricompensa e una vita buona (in terra) e (nella vita futura) daremo come ricompensa il meglio di ciò che facevano».
Sono i punti che introducono il discorso sulla donna musulmana, messa spesso in contrapposizione con quella occidentale. Non mi riferisco a tutti i numerosi eventi che vengono proposti, così come il mio ragionamento non riguarda delle associazioni in particolare, ma concerne talune testimonianze di donne musulmane che si sentono chiamate in causa quando nei media l’unica immagine che effettivamente prevale di donna di fede islamica è dipinta come oppressa, limitata nelle sue libertà, senza voce, privata della sua identità e annullata nella sua essenza.
Dal contrasto nasce un dualismo irriducibile e passa l’idea che la donna non musulmana sia prigioniera se mette troppo in mostra il suo corpo. Si crea così una sorta di parallelismo tra l’ipervelata e la velina. Entrambe sono veline, cambia solo qualche centimetro di stoffa.
Ma un pregiudizio non può essere combattuto e abbattuto creando un nuovo pregiudizio, come non potrà mai essere smontato se messo a confronto con un altro stereotipo, estremo e speculare al primo. È il rischio più pericoloso e anche il più facile in cui ci si può imbattere, ma in alcuni contesti purtroppo e forse involontariamente avviene. Personalmente ho imparato, e tuttora imparo dalle mie esperienze, che è solo guardando in faccia gli stereotipi che si è in grado di smantellare e ridimensionare le immagini che le persone si sono costruite nella propria testa. È solo affrontando di petto questi pregiudizi che si possono realmente smorzare e attenuare i più diffusi preconcetti, anziché svilupparli e alimentarli confrontando il polo positivo con quello negativo.
Non solo perché gli estremi opposti che vengono dipinti e quasi decantati sono una piccola componente dell’universo femminile, ma anche perché in questo modo si snatura l’essenza del discorso. Rievocando queste immagini si appesantisce la carica umiliante del velo integrale da una parte mentre dall’altra, accostandola col suo corrispettivo capovolto, si enfatizza l’emancipazione/ prigione della donna che si libera da tutto e da tutti per mostrarsi ed esibirsi. Due identità che si annullano. Qual è dunque il modo migliore per parlare della donna? Parlare delle donne. Al plurale. Secondo: che termini usare tra libera, moderna o emancipata? Che connotazione dare a ognuno di questi concetti per vincere e cambiare i cliché? Forse partendo dalle parole di una scrittrice contemporanea che, senza contare i centimetri di abbigliamento, suggerisce questo: «La donna emancipata non è la moderna bambolina che si trucca e indossa abiti di cattivo gusto. La donna emancipata è una persona che crede di essere umana tanto quanto un uomo. La donna emancipata non insiste sulla sua libertà così come non ne abusa».


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