Non profit

Osservatore Romano: giusta la sentenza di Milano

Il giornale della Santa Sede in un articolo intitolato Il business della libertà osserva che servono regole per bilanciare diritti e doveri

di Redazione

La sentenza di Milano che condanna i gestori del motore di ricerca per aver diffuso via Internet immagini di un’aggressione a un bambino down «va nella giusta direzione: servono regole; i motori di ricerca e i provider hanno responsabilità penali. Ma il problema è quali regole introdurre per bilanciare diritti e doveri, e chi debba stabilirle e farle rispettare. Questioni non facili, ma forse è il momento di aprire una discussione globale e di creare nuovi strumenti, come un Internet Bill of Rights». È quanto afferma l’Osservatore Romano di oggi in una articolo dal titolo Il business della libertà. Il quotidiano vaticano ricorda le immagini del video rintracciabile nella rete: «il ragazzo è picchiato e deriso dai compagni di classe: piccole schermaglie, qualche spintone, insulti. Cronico bullismo scolastico, si dirà, se non fosse per due particolari niente affatto marginali. Primo: quello preso di mira è un disabile. Secondo: un altro ragazzo sta riprendendo la scena con il telefonino. Il video, girato a Torino nel maggio 2006, è caricato su Youtube e diventa un “successo” (5.500 contatti) fino a quando non viene rimosso. Tre anni più tardi il Tribunale di Milano decide di condannare tre manager europei di Google, la società proprietaria di Youtube, per la pubblicazione del contenuto».

«In attesa di conoscerne le motivazioni, che verranno rese note tra qualche mese – afferma ancora il giornale vaticano – nella sentenza di Milano c’è già una novità sostanziale: per la prima volta in un Paese occidentale è stato stabilito che un motore di ricerca su internet e i suoi dirigenti possono essere ritenuti legalmente responsabili per il materiale messo in rete – sul motore stesso o su siti collegati – da parte di terzi, cioè di utenti che hanno libero accesso alla struttura».

Il problema rileva il quotidiano della Santa Sede, è come preservare quella creatività e quella libertà di azione che caratterizzano la rete, rendendola tanto affascinante e densa di opportunità d’ogni tipo, e assicurare al contempo un controllo sui contenuti. «Il problema alla radice – spiega l’Osservatore – è che la rete è un affare per molti. Youtube dà a tutti la possibilità di guadagnare grazie alla pubblicità: i video più visti – come quello della sentenza di Milano, come altri, magari pornografici, razzisti o violenti – offrono grandi opportunità di introiti da dividere tra gli autori e il provider. È un algoritmo a decidere i filmati che possono essere monetizzati». «Tuttavia – prosegue il testo – il sospetto è lecito, con ogni probabilità sarà ancora una volta il colosso californiano a guadagnare di più da questa operazione, a sfruttare il richiamo alla libertà di espressione per far lievitare gli introiti». Anche perché «costruire un sistema di controllo è costoso: pagando gli addetti alle revisioni anche solo cinque dollari l’ora, il costo annuo del controllo preventivo dei filmati supererebbe gli ottanta milioni di dollari. Troppo, per i vertici di Mountain View. Troppo, anche se Google guadagna dai dieci ai venti miliardi di dollari l’anno e Youtube vende pubblicità a 178.000 dollari al giorno, quasi cinque milioni e mezzo di dollari al mese. MySpace – dicono le stesse fonti – guadagnerà fino a 900 milioni di dollari l’anno dopo aver firmato un accordo con Google. Cifre da capogiro. È il business della libertà. Che tuttavia non può essere senza freni».

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