Famiglia

Pippo Delbono. Ovazione alla vita

Sapete qual'é il regista italiano più acclamato all'estero? E' questo signore che porta in scena disabili mentali e barboni.

di Ettore Colombo

Uno dei parametri migliori per capire se una donna è fatta per te o meno è quello di portarla a vedere uno spettacolo (uno qualunque, tanto a giro li replica tutti) di Pippo Delbono, autore-attore e uomo di teatro a modo suo. Se la suddetta piange, si commuove, si fa travolgere e stravolgere dalla loro forza urtante e dissacrante, beh è fatta. Se invece rimane fredda, un po? stupita, un po? schifata, sulla sedia, alla fine della rappresentazione, allora, davvero, è meglio lasciar perdere: non si è fatti l?una per l?altro. Finalmente, dopo tanto vederlo, in sala, al buio, abbiamo incontrato Pippo Delbono per una lunga intervista, questa: è riuscito ad arrivare in ritardo all?appuntamento, molto più in ritardo dell?intervistatore, ritardatario di suo, aveva l?aria sfatta e annoiata di chi vive sapendo che è fatica, vivere, e parlava guardando un inesistente punto fisso davanti a sé, sicuro dei suoi pensieri, fatti di poesia. Siamo usciti spossati, dall?intervista, e come in uno stato di trance: la stessa emozione sfibrante che offre il suo teatro. Per fortuna, bisogna aggiungere. Tu lavori con matti, tossicodipendenti, barboni, che sono diventati, ormai, non solo e non tanto soggetti dei tuoi testi e dei tuoi spettacoli, ma attori e quasi autori con te, nel processo creativo e lavorativo della tua compagnia. Cosa vuol dire, per te, fare teatro con la disabilità e la diversità? Essere senza difese, come sono loro, come sono io, vuol dire riuscire a scoprire di più e meglio il proprio io. Vedi, loro, ad esempio, sono dei maniaci dei tempi e dei movimenti di scena. Hanno un senso perfetto del tempo. Poi magari sono sordomuti o malati psichici o tossici, come ero anch?io, peraltro, quando mi sono avvicinato a molti di loro. Barboni è nato dall?incontro con Bobò. Si trattava di fare un seminario teatrale, ma non sapevo che si trattava di farlo in un manicomio, quello di Aversa. Era un seminario per attori al quale alcuni pazienti dell?ospedale partecipavano come osservatori. Noi mangiavamo lì con loro, dormivamo lì. E lì, ogni pomeriggio, puntualmente veniva un omino che si sedeva tutto compito a osservare. Così, a un certo punto, l?ho invitato a partecipare al lavoro. Era Bobò, sordomuto e microcefalo, che era stato rinchiuso lì dentro per 45 anni. Questo omino faceva delle cose bellissime. Non sapevo se ero io così matto, ma lui mi era sembrato subito un grande attore, poetico, dolce, misterioso, con un movimento aggraziato, delicato, bellissimo. E poi c?erano insieme a lui altri pazienti e anche con loro si era creato qualcosa di molto profondo.Qualcosa di molto grande ci univa in quel momento, loro lo percepivano e io li sentivo molto vicini. Una volta un maestro buddista mi ha detto che bisogna scendere al livello delle persone che soffrono, condividerne l?esperienza e poi risalire insieme: quella era la compassione. Col tempo ho capito che lì, in quel manicomio, stava iniziando a succedere qualcosa di simile. Vedi, io credo che tutti abbiamo dentro di noi la dimensione del dolore, ma spesso la perdiamo, perché tutta la nostra vita ci porta a preoccuparci solo dell?apparire, del vestirsi, come cerco di far capire in Gente di plastica. Ecco, appunto, il tuo ultimo spettacolo. Punta diritto al cuore, come sempre: scuote, rovista dentro, fa persino stare male. Quando Gianluca è entrato nudo in scena, bello come solo un minorato può essere, una signora ha preso e se n?è andata. E dire che il Teatro dell?Elfo è un posto, da sempre, ?di sinistra?? Parto sempre da una condizione di dolore, come ti dicevo, che, come in questo spettacolo, sta tutta dentro un?apparente normalità e serenità ?borghese?. Cerco di far riflettere sulle piccole e grandi sofferenze delle persone. Sono stato in Palestina, di recente, e ho portato lì Guerra, ma presto tornerò con Esodo e con Barboni. Abbiamo recitato con il coprifuoco, a Betlemme, con la paura addosso, ma tutti hanno una gran voglia di vivere, lì. Ecco, da noi, invece, nelle nostre società, regna apparente la felicità, il benessere, la tranquillità e invece, sotto, c?è il dolore, la paura, la povertà. Gioco su queste contraddizioni. Senti, Pippo, l?unica cosa di cui ti potrei rimproverare è quella di non lasciare aperta una porta alla speranza, in questo tuo spettacolo. Ma ha scritto Luca Doninelli, in una delle più belle recensioni uscite su Gente di plastica: “I suoi strani e profondi personaggi si trovano lì, sul palco, non per recitare una parte, non per fingere, ma per raccontare sempre e comunque la propria storia. Forse Delbono voleva lanciare soltanto parole di disperazione, ma le eccedenze espressive del suo magnifico gruppo volgono continuamente il messaggio verso un?irriducibile positività, un indomito bisogno di pietà e di bontà.Talora ridondante, talora semplicistico, talora retorico, Pippo Delbono è sempre un vero poeta. Che sa curare la propria poesia”. Di queste parole che mi dici e che mi leggi ti ringrazio di cuore: per me, molto prima del teatro, c?è la vita. Il testo, a volte, può diventare una costrizione e una costruzione, una gabbia. Io sono buddista e credo nella vita, oltre la vita. Avere speranza, a volte, vuol dire soltanto aprire gli occhi. Ma più che di speranza preferisco parlare di fede: nei miei spettacoli c?è fede, non c?è speranza. Anche la fede che nasce dall?angoscia del vivere. L?arte deve essere coraggio, altrimenti non è niente. Pensa a Pasolini: quanta fede aveva e quanto coraggio. Lo stesso che hai tu, Pippo.


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