Non profit

Lui, Sergio, Tu

di Redazione

Cerco la leva capace di spingere la parola. Di sollevarla, spostarla, trascinarla sull’asfalto di quella piazzola che per ultima ha sostenuto il corpo di Sergio Marra. Pochi centimetri d’asfalto hanno retto il respiro di coda, il grido finale di chi ha speso voce fino all’asfissia.
Devo costringerla a scatti d’emergenza, ad avanzamenti nervosi, questa parola che sente freno d’attrito, resistenza d’arteria davanti all’innesto di un sangue versato improvviso. Perché ogni lettera pare cedere, la sintassi rischia crollo e stordimento. Al traguardo di un incipit che subisce la sua fine. Qui, nell’area di sosta della provinciale tra Marne e Brembate. Costola strappata al torace della periferia bergamasca. Osso incapace di farsi reliquia, buono forse al ringhio di un cane o allo sbadiglio di un viaggio. Certo impreparato ad essere mescola con le ceneri di un uomo.
Proprio in questo luogo di cantone senza carne né parte, Sergio Marra ha deposto la sua vita. Non l’ha adagiata dentro un congedo silenzioso. No. L’ha scaraventata nel chiasso del fuoco, nell’urlo di un’accensione che ci abbaglia le coscienze e costringe in luce la buca oscura. Siamo chiamati a vedere il sepolcro, a riconoscere la fossa comune che ci riunisce tutti. Di fronte alla scelta di Sergio, al suo darsi alla morte con una tanica di benzina versata addosso.
Lui, giovane uomo di trentasei anni. Operaio impiegato in una fabbrica di materie plastiche. Dallo scorso novembre rimasto senza lavoro per la chiusura dello stabilimento. Da qualche mese tenuto in disparte, messo nel mazzo dei segni cancellati, escluso al gioco da un sistema che non gli permetteva di essere picche né cuore, che non gli garantiva una speranza a quadri e nemmeno un dubbio a fiori.
Lui, Sergio, Tu.
Hai sentito il cigolìo di molle feroci, la contenzione di un letto che forzava alla piaga da decubito, all’occhio girato a chiave contro il soffitto. Ti sei visto strappare gli abiti senza capire di chi fosse quella mano che ti voleva nudo, costretto alle cinghie di un materasso spiumato. Pezzo su pezzo la dignità è caduta riversa sul pavimento. Gettata al fianco dell’ultimo calzino. Finita tra le scarpe che ti hanno tolto, tra le suole interdette per frana sociale e strada infranta.
E con la reclusione forzata sul corpo spoglio, un chiodo al passo che arresta il piede, è cosa dura per un uomo. Tendere al punto della speranza. Rispondere all’unico nervo che motiva il dito a scorrere i giorni del calendario. Che lo spinge alla pressione del polpastrello sopra ogni singola data. Per il bisogno sommo di rintracciare il senso ultimo e la verità prima. Dentro a quelle caselle cifrate che sono spina dorsale della vita.
Sergio la mattina del 30 gennaio ha parcheggiato la sua Clio blu. Deciso a non sfogliare un nuovo giorno, a marcare il sabato con la croce tragica di una festività totale. È sceso dall’auto ridotto, diminuito nel diritto di credere al domani, spuntato come cespuglio da ornamento per la mensola del potere, potato in una geometria replicante da prodotto seriale. Un ritaglio di plastica uscito dritto dalla fabbrica per cui lavorava. Merce in esubero per carenza di domanda. Da smaltire in fretta a basso costo. Magari in un incendio doloso che risulti casuale. Così la responsabilità si annulla. E sarà silenzio di nomi e scomparsa di appello.
Sergio si è negato a una realtà che l’ha fatto sentire Cosa.
Lui così illuso di potercela fare, a restare Uomo. Lui sposato con una donna, legato alla durata di una promessa, alla fede di una passione. Studi di informatica alle spalle, sospesi per mancanza di impiego nel settore. Lui inventato operaio, stretto in una taglia fuori misura, disposto all’indietro della pancia per stare nei centimetri della dignità.
Lui, Sergio, Tu.
Non hai lasciato una parola scritta ma tutto l’alfabeto intero. Inciso al tuo corpo per ustione, bruciato alle nostre facce per denuncia. Di una carne che si era persa l’uomo. Di un uomo sottratto alla carne. Di un distacco feroce che, una volta concesso, annulla ogni ipotesi di Resurrezione.
Perché senza questa giuntura tra l’uomo e la carne, non si muove verità. Non si articola Dio. E noi restiamo preda di una bestemmia generale che ci droga il nome, facendogli credere di essere “comune di cosa” anziché “proprio di persona”.
Sergio, con il suo alfabeto in fiamme e la sua vita al rogo, ci grida addosso il dovere di disporci alla trincea, alla difesa serrata del nostro essere parola, carne, uomini. Rifuggire a questa responsabilità, sarebbe vanificare lo strazio di una luce. Il tormento di un’accensione estinta per rammentarci il buio. La deriva nera da cui stare in guardia. Per non perdere convinzione di attraversamento e speranza di approdo.

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