Mondo

Diario da Port au Prince

Le persone e i problemi del paese devastato dal sisma. Il racconto di Nicoletta Dentico

di Nicoletta Dentico

PORT AU PRINCE (Haiti) – Pierre ci viene dietro mentre, accompagnati da Padre Moracel e da due operatori del VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), visitiamo il campo allestito nella struttura dei salesiani nel quartiere di Carrefour. Lui ci viene dietro e ripete in creolo lo stesso incomprensibile messaggio: ho fame, traduce Padre Moracel.

Ha otto anni, lo sguardo di due occhi immensi e profondi. Insieme a lui Louise, la sorella di tredici anni. Sono due di cinque fratelli rimasti senza genitori. Il padre è morto, dice laconico Pierre. Della mamma, i due pronunciano un enigmatico elle n’est pas là, non c’è. A nulla vale la mia ulteriore indagine, c’è solo la lacrima che Louise non riesce a trattenere. Non mi resta altro che l’illusoria distrazione di una foto per sottrarli un istante dalle loro esistenze sgualcite, e dal mio impaccio di fronte a tanta ruvidità del vivere.

E’ trascorso un mese dalla scossa che ha fatto precipitare Haiti nell’ennesimo abisso. Un mese con decine di migliaia di morti ancora sotto le macerie, di miserabili tendopoli ritagliate ovunque, negli spiazzi più improbabili ed esposti, lungo i marciapiedi e gli intermezzi delle strade, persino sopra le macerie delle abitazioni. Almeno 700mila persone vivono accampate senza l’accenno di un servizio igienico, stipate in spazi angusti, nel buio più impenetrabile.

Di notte, le strade si trasformano in impressionanti dormitori a cielo aperto, nessuno si corica all’interno delle case rimaste in piedi, il terrore pulsa nella testa della gente, le previsioni poi indicano l’arrivo di un’altra scossa di pari entità a breve. Continuano a cadere le case a Mon Lazare, scivolano giù lungo le colline. Ad aprile comincia la stagione delle piogge, è la bomba ad orologeria della prossima devastazione annunciata.

Bisogna venirci ad Haiti: per capire la gigantesca entità del disastro, la vastità della distruzione, l’estrema complessità dell’intervento di emergenza richiesto. A Port au Prince si è riversato il mondo, la più grande operazione umanitaria mai dispiegata all’interno di un paese dove, bisogna ricordarlo, l’emergenza era antecedente al terremoto. Un’onda di aiuti immane, si muove con buona volontà ma indubbia fatica. Se non fosse che l’asimmetria fra la disponibilità di mezzi e di persone ed il loro impatto sulla popolazione stremata balza agli occhi con una certa, imbarazzante, evidenza.

Ragioni plausibili per alcune lentezze ci sono. Tra le organizzazioni già presenti ad Haiti, molte hanno subìto danni considerevoli, soprattutto fra lo staff locale e le loro famiglie. “Logisticamente spazzati via” dice Harjeet Singh del team di emergenza di Action Aid, che aggiunge: “abbiamo dovuto impiegare del tempo per ripristinare le minime condizioni operative prima di attivare la nostra risposta”.

Non è stato semplice reclutare gli operatori haitiani, i soli capaci di assicurare l’accesso alla popolazione. Dieci giorni dopo il sisma non esistevano ancora linee di comunicazione – i telefoni funzionano da poco, instabili. La logistica è il primo ostacolo, dichiarano all’unisono gli operatori delle organizzazioni non governative incontrate: indisponibilità di mezzi (non si trovano macchine), linee di approvvigionamento dure da mettere in piedi, prezzi alle stelle. L’Onu ha messo a punto il coordinamento per la gestione di un disastro che ha raso al suolo le stesse istituzioni del paese, ma si tratta di uno sviluppo relativamente recente, e tutto da semplificare, se la gran parte degli operatori – pur riconoscendone la necessità – identificano nel sistema di coordinamento Onu uno dei freni all’agilità dell’azione sul terreno. 

Fatto sta che, ad un mese dal sisma, sono pochi e invisibili a Port au Prince i militari del genio impegnati a rimuovere le macerie – operazione che richiederà molte macchine, lunghi mesi ed estenuante lavoro. Troppi e vistosi invece i soldati che, mitraglie in spalla e dito sul grilletto, costeggiano le file di distribuzione degli aiuti o riempono di mezzi le via già intasate della capitale solo per militarizzare la città, e l’azione umanitaria. La situazione appare migliore altrove. A Léogane, la città più prossima all’epicentro del sisma, con 8000 morti ed il 90 per cento delle case abbattute dall’onda sussultoria ed ondulatoria ad un tempo – ci spiega Marina Mucciarella, ingegnere dell’emergenza di Intersos – il genio canadese si muove con una certa capacità di risposta. Molti mezzi sono ancora ammassati nei containers, però. Solo negli ultimi giorni le tende della protezione civile italiana, arrivate ad Haiti con la portaerei Cavour dopo una sosta fuori rotta in Brasile tutt’altro che umanitaria, sono comparse per la distribuzione. Non mancano le lamentele fra i missionari italiani presenti da decenni nel paese, che chiedono di liberare gli aiuti, se si vuole garantire la sicurezza nel paese.

La presenza del governo è un’altra evoluzione recente. La sua presenza nelle decisioni strategiche – alloggi, scuole, salute – è una necessità inevitabile. Agli accampati di Port au Prince si aggiunge infatti la massa di quasi un milione di persone che hanno cercato rifugio nelle zone rurali illese, ma non per questo meno vulnerabili. Gli haitiani si arrangiano come possono.

Woothey vive a Mariane ed è insegnante, ma vende detersivo ed altre piccole cose per mantenersi, prima che siano ripristinate le scuole. Tutti chiedono di tornare a lavorare. Molti sono impiegati con i programmi “cash for work”, soldi per lavoro, per la gestione dei rifiuti, per la rimozione dei detriti lungo le strade. Numerosi comitati locali si sono organizzati per affrontare l’emergenza, definire priorità e richieste alle organizzazioni umanitarie. Vogliono torce e radio, racconta Marco Ferloni di COOPI, chiedono pale per la pulizia delle strade. Implorano l’intervento di medici in grado di occuparsi del trauma che il terremoto ha provocato nella  gente, e di altre emergenti malattie. La questione sanitaria è una priorità enorme, fa il paio con la questione della proprietà della terra ora occupata, con una provvisorietà destinata a durare a lungo.

C’est par la sagesse qu’on construit une maison, et par l’intelligence qu’on la rende solide, leggiamo sul muro di un’aula distrutta della vecchia scuola di arti e mestieri di Port au Prince. Con la saggezza si costruisce una casa, la si rende solida con l’intelligenza: un monito per tutti, ben oltre l’azione degli operatori umanitari. Il terremoto che ha scosso Haiti, lo dicono gli haitiani recalcitranti ad ogni pessimismo in nome di Dio, può diventare un’occasione di ricostruzione profonda per il paese. I fondi non mancano. Occorre l’intelligenza di usarli bene e con una visione di tempi lunghi, per dare solidità a questa sfida.

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