Mondo

adozioni difficili, a chi chiedere aiuto

Il caso di Viterbo ha sconvolto l'Italia: come evitarlo

di Benedetta Verrini

Era arrivato in Italia dal Burkina Faso solo nel mese di novembre, il piccolo di 5 anni che il 10 febbraio scorso è stato picchiato violentemente dalla madre adottiva, nelle campagne di Viterbo. La vicenda fa emergere il tema dei fallimenti adottivi e della necessità di curare di più la delicata fase del post adozione.
L’ultima rilevazione della Cai sui “percorsi problematici dell’adozione” risale al 2003-2005 e attesta la percentuale di adozioni “problematiche” (entro cui stanno sia i fallimenti sia gli inserimenti particolarmente difficili seguiti e risolti dai servizi, anche attraverso temporanei allontanamenti del minore dalla sua nuova famiglia) intorno all’1,7% del totale.
Sebbene contenuto, il dato (insieme alla drammatica vicenda del bambino del Burkina, adottato da una coppia ultracinquantenne attraverso la Comunità di Sant’Egidio) fa riflettere sull’importanza della fase post adottiva. A parte il follow up richiesto dai Paesi d’origine, che si risolve in una relazione inviata dall’ente, la scelta di “farsi seguire” oppure no nella delicata fase dell’ingresso in famiglia di un figlio straniero resta sostanzialmente in capo alla coppia.
«Il post adozione è un momento determinante per stabilire la relazione e cementarla», sottolinea Valeria Rossi Dragone, presidente del Ciai. «Per quanto l’ente prepari la coppia, la realtà è sempre diversa da ciò che ci si immagina. Dopo il primo incontro, che può essere anche entusiasmante, per i genitori comincia un percorso difficile, in cui il bambino, che ha un vissuto doloroso, deve sviluppare il senso di appartenenza alla famiglia. È dunque possibile che ci sia una fatica educativa, che il bambino metta in atto alcune provocazioni per capire fino a che punto si tiene a lui. Bisogna cominciare ad ammettere che tutto questo è normale e soprattutto che se si è in difficoltà è fondamentale avere il coraggio di chiedere aiuto».
E qui si apre lo snodo fondamentale del problema: a chi chiedere aiuto? Le famiglie possono rivolgersi all’ente autorizzato – se questo è abbastanza grande e strutturato da poter mettere in campo un’équipe – oppure ai servizi. In questo percorso «ha il suo peso anche la vicinanza territoriale della sede», dice Luigi Negroni, responsabile del settore adozioni di Anpas. «Se la famiglia abita molto lontano, può essere faticoso raggiungerci e allora consigliamo di rivolgersi al servizio territoriale. In alcune zone d’Italia questa copertura è eccellente, in altre purtroppo è piuttosto carente». Una situazione a macchia di leopardo che ha le sue conseguenze e «che non può essere colmata dall’ente, che non ha le antenne di prossimità né la forza di una rete sociale costituita dalla scuola, dal pediatra di zona, dai servizi comunali», rileva Gianfranco Arnoletti, presidente del Cifa. «Per questo il post adozione dovrebbe essere reso obbligatorio e realizzato dai servizi. È necessario fare un lavoro di prevenzione, modulato secondo i bisogni: un diritto sia dei bambini che dei loro genitori».

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